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Selfie before the selfie: la storia dell’autoritratto, tra arte e psicanalisi

16 giugno 2021

Nel 2013 il termine “selfie” diventa la parola dell’anno secondo l’Oxford English Dictionary. Lo stesso celebre dizionario britannico definisce il termine in questo modo: “una fotografia scattata a se stessi, in genere con uno smartphone o una webcam, e caricata su un social media”. Un’evoluzione dell’autoritratto dunque, almeno nelle bizzarre origini che molti gli attribuiscono.

Il termine selfie sembra spuntare per la prima volta su un forum pubblico nel settembre del 2002, quando un uomo australiano scattò una foto del profondo taglio sul suo labbro chiedendo consigli in merito ai punti che gli erano appena stati applicati. Nel farlo coniò casualmente l’espressione selfie, ricalcando un’abitudine comune nella lingua australiana, ovvero quella di abbreviare le parole e terminarle con “ie”. Se queste sono davvero le origini della parola, il loro concetto originario mosso da intenzioni crude e realistiche volte a ritrarre il dettaglio di una ferita appena suturata, è oggi totalmente svanito in favore di propositi sempre più manipolatori della realtà con lo scopo di nascondere più che di mostrare.

Eppure, tornando alle sue naturali origini, la storia dell’arte ci racconta del concetto di autoritratto come di un’opportunità unica per confrontarsi con la replica artistica il più possibile fedele della realtà. Si pensi a quello considerato da molti come il primo autoritratto autonomo nell’arte, quello del pittore francese Jean Fouquet nel 1450: domina qui una volontà di catturare la figura nei suoi aspetti signorili ma anche più banali, ragion per cui si parla di solito di “centralità dell’uomo nella sua dignità di soggetto autonomo”, nonché di “realismo epidermico”. Un concetto che ritroviamo con forza anche nella produzione del tedesco Albrecht Dürer, uno dei più prolifici con all’attivo oltre cinquanta autoritratti, tutti caratterizzati da un’attenzione quasi maniacale ai dettagli e al contempo da una potente volontà di autoaffermazione.

Sebbene con risvolti via via leggermente diversi nel tempo, è di sicuro questo il filone predominante nella storia dell’arte, ma non è certo l’unico. Pur senza abbandonare intenti prevalentemente realistici, prendono infatti piede varianti tematiche che spaziano dal macabro (celebre l’autoritratto che Michelangelo inserì nel suo Giudizio Universale) al sorprendente. Si pensi, a questo proposito, alla fascinazione innescata dallo sguardo enigmatico della Monna Lisa, secondo molti nient’altro che una declinazione al femminile dello stesso autore, Leonardo Da Vinci.

Troviamo invece chiari intenti di indagine psicologica e autobiografica in alcuni dei più celebri e al contempo disturbanti autoritratti dello scenario Seicentesco; su tutti il capolavoro di Caravaggio Davide con la testa di Golia (1610). Qui il pittore ritrae se stesso nella testa recisa di Golia, mentre l’iscrizione in evidenza sulla spada è una chiara sigla della massima “Humilitas occidit superbiam”. Un espediente dai più riconosciuto come la dichiarazione di pentimento per il suo passato omicida. Uno schema incredibilmente simile nelle intenzioni a quello del pittore fiorentino Cristofano Allori nel suo Giuditta con la testa di Oloferne; quest’ultima altro non è che un autoritratto dell’autore, allora amante della cortigiana Maria di Giovanni Mazzafirri, per la quale perse appunto la testa.

Impossibile ignorare la forte volontà introspettiva e autocritica, pronta a farsi l’elemento fondante di molti dei lavori autoritrattistici dal ‘600 in poi. Da evidenziare in questo senso i lavori di Vincent van Gogh, ricorrenti nei periodi di maggiore sofferenza fisica e soprattutto mentale. In Autoritratto con la pipa il pittore si mostra con l’orecchio sinistro bendato, dopo che una forte crisi di nervi l’aveva spinto a recidersene una parte in un crudo gesto di autolesionismo divenuto celebre.

L’autoritratto si fa poi vera e propria narrazione storica tra Ottocento e Novecento, quando cronache belliche ricorrenti condizionano inevitabilmente anche gli aspetti più soggettivi e intimi: esemplificativi in questo senso i lavori di Pablo Picasso.

La prima immagine scattata con lo stesso processo di oggi, invece – vale a dire con il fotografo che tiene la fotocamera a distanza di un braccio – viene fatta risalire al dicembre del 1920. I cinque protagonisti erano i principali fotografi della Byron Company, studio fondato a Manhattan nel 1892 e ancora oggi in attività. I cinque, sul tetto di un edificio, tengono in mano una telecamera analogica così pesante che sono necessari gli sforzi di tutti per mantenerla su. Dal processo ne sono scaturite fotografie semplici, asettiche. Fanno parte di 23.000 stampe appartenenti alla Byron Company, e successivamente digitalizzate come parte della collezione digitale del Museum of the City of New York.

Bastano solo pochi cenni, quindi, per comprendere appieno come le radici artistiche e storiche di quello che oggi chiamiamo “selfie” si discostino enormemente dalle intenzioni predominanti nello scenario attuale. Del tutto tralasciati risultano infatti oggi risvolti psicologici, rivelatori e più in generale realistici. Domina l’ostentazione di un’immagine di sé che si presenti il più possibile pulita, chiara, luminosa, piacevole, piacente; quindi filtri, modifiche, difetti oscurati e sorrisi a nascondere anche la più complessa delle emotività.

Il risultato? La variante moderna e ipertecnologica dell’autoritratto va paradossalmente a invertirne senso e significato: non esiste più nessuna intenzione personale, ma solo lo sforzo di restituire un’immagine che sia il più distante possibile da noi stessi, per venire presentata alla massa critica in un percorso ricorrente e purtroppo indirizzato verso l’appiattimento.

 

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