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Cultura
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Il primo documentario della storia, celebrato anche da Frank Zappa, racconta l’ancestrale vita sui ghiacci di una famiglia di Inuit

18 luglio 2021

Immaginate la scena: una famiglia Inuit, popolo che vive in una delle aree più fredde e inospitali al mondo, ovvero l’Artico, è in viaggio in cerca di zone in cui stabilirsi. Va a caccia di trichechi, commercia nelle penisole di Ungava e sopporta condizioni metereologiche ai limiti della tolleranza umana. Questa è la trama del primo documentario della storia ad aver raggiunto il successo presso il grande pubblico. Usciva nel 1922 con il titolo Nanook of the North, per la regia di Robert Flaherty. Difficile da credere, ma è proprio così: in un periodo di continui stravolgimenti politici e culturali, il primo prodotto audiovisivo intento a documentare la realtà era dedicato a un misconosciuto popolo della penisola di Ungava alle prese con una quotidianità fatta di sacrifici.

Eppure, va detto, siamo di fronte a uno dei prodotti più sinceri e realistici nella storia del cinema, un documentario destinato a fare scuola e influenzare ancora oggi – a distanza di cent’anni – i registi di tutto il mondo e una grossa fetta del panorama artistico nel suo insieme. Basti pensare che il famosissimo musicista Frank Zappa dichiarò di voler diventare un Nanook. Per questo dedicò al documentario un intero concept album, Apostrophe, all’interno del quale provava a mettersi nei panni dell’Inuit protagonista del film di Flaherty, in brani come Don’t Eat the Yellow Snow e Nanook Rubs It.

C’è un particolare su tutti che colpisce e che senza dubbio non può passare inosservato: nel narrare l’esistenza di un popolo molto lontano dalle abitudini e dalle usanze di ogni altro Paese, Flaherty non assume un punto di vista occidentale e non restituisce una descrizione asettica. Punta piuttosto a mostrare gli Inuit per come loro stessi si vedono. Un punto d’osservazione raro e parzialmente inesplorato persino oggi, che il regista persegue e porta avanti con successo. Flaherty aveva infatti preso parte a una missione di ricerca di giacimenti minerari lungo la Baia di Hudson per la Canadian Northern Railway, e in quell’ambito si trovò a conoscere gli Inuit e a confrontarsi con i loro modi di vivere, non di rado fotografandoli e riprendendoli. Solo dopo il 1913, decise di mettere insieme quel bagaglio di conoscenze e materiali per qualcosa di più grande e strutturato, ma non sapendo nulla di cinema dovette prima seguire un corso di tre settimane a New York.

Il prodotto finale è un mix di generi tra documentario e dramma, in grado di stupire per realismo e al contempo di coinvolgere lo spettatore attraverso un sentimento di identità comune e di uguaglianza, foriero di empatia e contiguità a un popolo pur profondamente diverso da noi.

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