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“Fran Lebowitz – Una vita a New York” di Scorsese ha fatto scoprire al mondo un’intellettuale unica

15 febbraio 2021
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Nel finale de La 25ª ora, il primo film dove appare la New York post 11 settembre, il padre del protagonista gli ricorda che pur scappando dalla Grande Mela rimarrà sempre legato alla città: “Passerai il resto della vita nel deserto ma resterai sempre un newyorkese”. Pur non essendo nata a New York, Fran Lebowitz è ormai un’icona del luogo in cui vive da quasi mezzo secolo e rappresenta la dimostrazione vivente di quanto la frase detta nella pellicola di Spike Lee sia vera: Fran Lebowitz sarà sempre la personificazione della metropoli, anche se un giorno proverà a lasciarla. Martin Scorsese questo lo ha intuito e infatti ha scelto di raccontare New York  in una maniera inedita, proprio attraverso le parole dell’amica e intellettuale statunitense.

La nuova serie Fran Lebowitz - Una vita a New York non rappresenta la prima volta che l’autore di Taxi Driver si concentra su Lebowitz: lo aveva già fatto nel 2010, quando le dedicò un intero documentario. Stavolta, però, il progetto è più articolato e si snoda in sette episodi, facili da riassumere: Scorsese punta una telecamera sull’amica e la lascia parlare di tutto, mentre attraversa l’animata New York pre-2020.

È quest’ultima ad essere il vero fulcro della serie, filtrata attraverso una donna che è conscia di personificarla: “Dove altro potrei andare?”, si chiede a un certo punto Lebowitz avendo ben chiaro che non potrebbe mai rompere il legame viscerale con la città. D’altronde New York, sembrano dirci Lebowitz e Scorsese, non è tanto una città quanto un modo di vivere. Non è un caso che uno dei primi consigli che la scrittrice  rivolge allo spettatore sia proprio “pretend it’s a city”, fingi sia una città, che poi è pure il titolo originale della serie. Identificarsi con New York fino a questo punto non significa però esserne una semplice testimonial. Nel 2007, gli LCD Soundsystem cantavano “New York ti amo ma mi stai deprimendo” e questa sembra anche l’idea di Lebowitz, che non si fa problemi a descrivere anche il lato meno piacevole della città più famosa al mondo.

Guardando la serie, la sensazione è quella di trovarsi di fronte a una lunghissima stand-up comedy che racconta la metropoli, toccando diversi aspetti in ogni puntata. La donna cui, nel 1978, il Washington Post diede il titolo di “più grande umorista del suo tempo” non ha d’altronde perso la verve che la caratterizza ed è impossibile non associarla a un altro comico di origine ebrea come Woody Allen. Allen è evocato di continuo in una serie in cui Lebowitz regala infinite battute che potrebbero venire dal repertorio del regista di Manhattan, soprattutto nei dialoghi con alcuni dei registi che meglio hanno raccontato New York: Martin Scorsese e Spike Lee.

Quello che è interessante è che, pur ritraendo una città così famosa, Fran Lebowitz - Una vita a New York riesce a mostrarci il luogo più mitizzato al mondo in una luce diversa, facendo leva sulla convinzione dell’intellettuale di vivere una propria versione della metropoli, fatta di dettagli spesso ignorati dagli altri.  Eppure quando Fran Lebowitz racconta New York sembra parli anche delle nostre metropoli, quasi la città fosse il prototipo di tutti i conglomerati urbani moderni: la metro maleodorante che viene “rivalutata” con installazioni artistiche ma mai resa più funzionale, i tassisti schizzati, le ingenti spese che fanno sorgere spontanea la domanda: “Come fa a  viverci tanta gente se nessuno può permetterselo?”. Lebowitz ci ricorda continuamente che c’è bisogno di una buona dose di coraggio per vivere nel mondo così individualista e frenetico delle grandi città.

Leibovitz fotografa un mondo abitato da gente che ormai è arrivata a considerare “piaceri nascosti tutto ciò che non è una eccellenza artistica”. Il dovere di assecondare sempre le aspettative altrui ci fa sentire in colpa, tanto da dover trovare per forza una giustificazione alle nostre azioni che non sia il semplice divertimento. Nessuno ammette di amare le feste proprio per questo, evidenzia la scrittrice  mentre sullo schermo passano le immagini delle grandi cerimonie de Il Gattopardo di Luchino Visconti.

L’obiettivo della nostra società non è quella di stare bene ma piuttosto di rincorrere il benessere. Questa idea, secondo cui “non basta essere in salute ma bisogna stare bene” e per riuscirci è necessario spendere e privarsi di tanti piaceri, porta le persone a fare nel tempo libero “cose che prima si facevano nei campi di prigionia”. Viviamo un’esistenza in cui siamo costantemente spinti a cercare sfide ma Lebowitz  ci fa notare che la sfida più grande rimane quella di riuscire a vivere ogni giorno nella maniera migliore: per mettersi alla prova basta cercare di "andare in tintoria senza arrabbiarsi durante il tragitto”.

Bisogna fare il possibile per vivere meglio ma anche accettare che non saremmo mai aderenti al modello che appare obbligatorio: ognuno ha i suoi vizi ed è necessario come dice la scrittrice ricordarsi che “Nessuno sceglie di essere coscientemente dipendente da qualcosa” e che comunque “non è lo stile di vita che ti uccide”. Fran Lebowitz arriva a detestare la “dittatura del benessere” al punto da inorridire davanti al suo stesso vocabolario. Quando le chiedono come descriverebbe il suo lifestyle la risposta è: “Non lo descriverei usando la parola lifestyle”.

Come tutte le intellettuali, Lebowitz cova uno snobismo che considera positivo perché basato sulle opinioni e non sullo status. I suoi sono punti di vista che spesso si riassumono in  battute fulminanti: “Come si può acquisire il senso dell’umorismo? Così come si può acquisire l’altezza”. A differenza di altri artisti davvero snob, Lebowitz non racconta mai il momento in cui ha capito di avere talento per qualcosa. Al contrario, in un episodio, la scrittrice  ricorda quando si rese conto di non avere predisposizione per la musica, invitandoci così ad accettare il fallimento. In tutta la seconda puntata, Lebowitz non fa altro che riflettere su tutto quello che non sa fare lasciando allo spettatore una lezione: “Gli errori si ripetono e non si impara da essi, però ti aiutano a capire in cosa non sei bravo”.

Oggi riconoscere il talento è difficile perché questo viene spesso quantificato in denaro. Parlando delle aste d’arte, la protagonista della serie evidenzia che: “Viviamo in un mondo in cui si applaude il prezzo ma non l’opera”.  In realtà però  “la cosa bella del talento è che è distribuito in maniera del tutto casuale, non lo compri e non lo impari” e proprio per questo ammettere di non averne in qualcosa non è solo comodo ma anche indice di grande umiltà.

Quando Fran Lebowitz ammette di non avere predisposizione per il violoncello ci fa empatizzare subito con lei al punto che, ascoltando la storia della sua infanzia, ci sembra quasi di sentire parlare i nostri genitori. Lebowitz spesso ritorna con la mente a un passato non lontano in cui i padri si preoccupavano più di trovare marito alle figlie che non di farle fare esercizio, dipingendo un’epoca in cui  non c’era l’idea del mangiar sano e non si conoscevano i pericoli del fumo. Il luddismo esasperato di Lebowitz, che non possiede neanche un cellulare, sembra nutrire una nostalgia che investe soprattutto quello cui abbiamo rinunciato negli ultimi mesi e che rivediamo nella serie. Quel rumore della città che si sente spesso in sottofondo e per cui la gente, secondo l'intellettuale, va dagli psichiatri in fondo ci manca. È questa nostalgia quella che vale davvero la pena provare, non quella per un passato non vissuto che va di moda oggi e che viene presa in giro da Lebowitz, quando confessa a Scorsese: “A vent’anni, io non sarei mai andata da una settantenne a dirle che mi sarebbe tanto piaciuto vivere negli anni Trenta”.

A parte le battute, Lebowitz non fa la predica alle nuove generazioni, non dice mai che la sua giovinezza, in un mondo dove si fumava nei cinema e si guardava con sospetto a una donna con senso dell’umorismo, fosse migliore. Lei osserva ma non giudica perché “si possono giudicare realmente solo i propri coetanei”. La necessità di dare un giudizio è un tema affrontato più volte in Fran Lebowitz - Una vita a New York. Per far capire la sua posizione sulla cosiddetta cancel culture, la scrittrice fa l’esempio dello scrittore Henry Roth che aveva avuto rapporti con la sorella e che andava biasimato per questo senza però metterne al bando l'opera letteraria. Con il distacco di chi se ne tiene fuori per scelta, Lebowitz ci mostra l’ironia contraddittoria di una società in cui esistono “amicizie senza amici, arte che non viene osservata quasi mai dal vivo e scandali sessuali senza sesso”.

Anche se prima della serie di Scorsese in Italia era forse poco conosciuta, Fran Lebowitz  è molto nota in patria soprattutto in quanto autrice di  bestseller: Social Studies e Metropolitan Life, due raccolte di articoli incentrati sui propri punti di vista. Lebowitz è infatti sempre stata per sua stessa ammissione “piena di opinioni” ma non percepisce l’obbligo di dover parlare o scrivere pur non avendo nulla da dire,, al punto da  arrivare a non pubblicare per scelta un libro dal 1994.

Fran Lebowitz oggi è una figura femminile moderna che rappresenta quasi senza volerlo il prototipo di una persona libera, in grado di ricordarci quanto sia gradevole non doversi sforzare di piacere a tutti o cercare di essere sempre al centro dell’attenzione. Il suo carattere combacia con quello della città che è l’altra protagonista della serie, facendo diventare Fran Lebowitz la migliore ambasciatrice possibile di New York.

Foto courtesy Netflix

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