“Longum est per praecepta, breve et efficax per exempla”, scriveva Seneca a Lucilio. Ovvero: la via per imparare è lunga se si procede per nozioni, breve ed efficace se si va per esempi. Ricorrere a questi ultimi può essere, infatti, determinante per spiegare concetti difficili da esprimere a parole. Come ad esempio cos'è la passione e come si tira fuori il meglio di sé. E in questo caso specifico, un esempio su tutti torna utile, quello di Kobe Bryant, atleta per vent'anni protagonista ai massimi livelli con addosso le canotte dei Los Angeles Lakers e degli Stati Uniti.
Soprannominato "Black Mamba" in onore di un serpente particolarmente pericoloso, nella sua lunga carriera Bryant ha infranto record su record, grazie a un’implacabile fame di vittorie. Negli anni, i principi che hanno alimentato questa fiamma sempre ardente hanno dato forma alla cosiddetta Mamba Mentality. Una formula che racchiude determinazione e ambizione, consapevolezza di sé e dei propri obiettivi, massima concentrazione e chirurgica attenzione ai dettagli, spirito di sacrificio e ricerca dell’equilibrio. Qui, dove passione e ossessione si incontrano, inizia la leggenda di uno dei più grandi cestisti di tutti i tempi.
Piccola premessa: la NBA rappresenta un unicum nello sport professionistico. Per nessun’altra disciplina esiste infatti un campionato che, come la lega americana di basket, accolga la maggior parte dei migliori giocatori del mondo. Ciò fa sì che il livello di competitività sia sempre altissimo e, di conseguenza, che la “selezione all’ingresso” sia molto rigida. Per i giovani talenti la porta d’accesso è, solitamente, il passaggio per la NCAA, il campionato universitario nazionale. Tranne che per alcuni eletti: Kobe Bryant, messo sotto contratto dai Lakers nel ’96 ad appena 17 anni, è stato uno di loro.
In lui, il leggendario Jerry West – la silhouette ritratta nel logo della NBA – aveva intravisto qualcosa di speciale. Il manager della squadra di Los Angeles aveva capito di aver a che fare con un autentico prodigio. Un adolescente che lavorava instancabilmente per aggiungere nuovi elementi al suo gioco e che era in grado di imparare molto velocemente, dimostrando un’etica lavorativa e un’intelligenza cestistica introvabili tra i suoi coetanei.
Fin dall’inizio volevo essere il migliore. Provavo una fame bruciante, una smania inestinguibile di migliorare e di primeggiare. (Kobe Bryant, The Mamba Mentality)
Già allora, e lo saranno per sempre, i suoi segreti erano una vivida curiosità e una profonda attenzione ai dettagli, messe in pratica studiando ogni giorno il gioco che amava. Il giovane Kobe guardava in continuazione filmati di compagni e avversari, squadre del presente e del passato: un esercizio per capire meglio il basket, memorizzare i movimenti di gioco, studiare tattiche e contromosse, imparare pregi e difetti di tutti gli schemi. Perché “a qualcuno piace ammirare un bell’orologio, altri preferiscono scoprire come funziona”.
Quel ragazzino era in missione. Il suo unico obiettivo era approcciare ogni sfida con determinazione assoluta, sentendosi costretto ad affrontarla al meglio delle sue possibilità. Una scalata in cui non c’era spazio per la pressione proveniente dall’esterno, perché le aspettative che riponeva in se stesso erano più alte di quelle di chiunque altro. Consapevole degli enormi sacrifici necessari per raggiungere i suoi ambiziosissimi obiettivi, Bryant ha lavorato più sodo degli altri fin dall’adolescenza. Non stupisce, quindi, che a soli 23 anni avesse già vinto ben tre campionati con i suoi Lakers, affiancando il suo nome a una serie di primati tuttora imbattuti.
Illuminato da un talento cristallino, Kobe Bryant ha conosciuto la fama prima della maggiore età. Ma ben presto ha capito che per mantenerla servivano fatica, serietà e disciplina. E, per tornare a quanto scriveva Seneca a Lucilio, esempi. In questo senso, l’ex cestista ha più volte sottolineato di essersi ispirato a una figura che non aveva nulla a che fare con il basket ma che era semplicemente uno dei più grandi sportivi di tutti i tempi: Muhammad Alì.
In The Mamba Mentality si legge: “Ho imparato molto studiando e osservando Muhammad. Una delle lezioni più importanti che ho appreso è che devi lavorare sodo al buio per poter brillare alla luce”. Un concetto che Bryant legava alla consapevolezza, di sé e dei propri obiettivi. Perché, nelle vette più alte e nei picchi più bassi, nelle vittorie gloriose e nelle sconfitte brucianti, “il segreto è essere consapevoli delle emozioni che si provano e di quelle che si dovrebbero provare”.
Del resto, la mentalità a cui ha dato il nome non si focalizza tanto sul risultato da raggiungere, quanto piuttosto sul processo che conduce a quel risultato. Riguarda il percorso e l’approccio, da coltivare in tutte le circostanze. Anche quando il destino si mette di traverso, come nei casi dei tanti infortuni subiti, spesso nei momenti decisivi della stagione, a volte fronteggiati rimanendo comunque in campo. Perché la passione è il miglior anestetico.
È il caso di Gara 4 delle Finals del 2000, quando nonostante una caviglia gonfia e dolorante si caricò tutta la squadra sulle spalle e nei 5 minuti dei tempi supplementari segnò gli 8 punti che riportarono a Los Angeles il titolo. Impresa analoga a quella realizzata dieci anni dopo, nel 2010, quando con un dito rotto e steccato segnò 49 punti nelle ultime due gare, permettendo ai suoi amati Lakers di trionfare contro gli acerrimi rivali dei Boston Celtics.
Due episodi ricordati in Fade to Black da Kendrick Lamar, cantante losangelino e tifoso dei Lakers che – per sua ammissione – si ispira alla Mamba Mentality per rincorrere la grandezza. E nello stesso brano l’artista, a cui nel 2018 è stato assegnato il Premio Pulitzer per la musica, sottolinea l’esempio dato da Kobe alla comunità californiana, portata alla gloria senza mai risparmiare “blood, sweat, tears”. Sangue, sudore e lacrime.
Caro basket,
dal momento in cui ho cominciato
ad arrotolare i calzini di mio padre
e a lanciare immaginari tiri della vittoria
nel Great Western Forum
ho saputo che una cosa era reale:
mi ero innamorato di te
Un amore così profondo che ti ho dato tutto
dalla mia mente al mio corpo
dal mio spirito alla mia anima
Inizia così Dear Basketball, il cortometraggio d'animazione sceneggiato da Kobe Bryant e contenente la sua lettera d’addio alla pallacanestro, che nel 2018 gli è valso il Premio Oscar. Un testo che, data la prematura scomparsa del Black Mamba, ha un sapore agrodolce perché somiglia tanto a un testamento spirituale. Un inno romantico all’amore per lo sport, nonostante i sacrifici a cui l’ha costretto per tutta la vita.
Perché non si può raggiungere la grandezza camminando in linea retta. Difatti Bryant paragonava la sua carriera a una lunga, affascinante ma estenuante danza. Un continuo cercare l’equilibrio in cui “ogni volta che oscilli troppo in una direzione, devi correggere l’inclinazione e ti ritrovi sbilanciato dall’altra parte”. E durante queste oscillazioni, è stato disposto a sacrificare tutto ma non la famiglia. Piuttosto il sonno, allenandosi di notte: “Ero con le mie figlie quando si svegliavano al mattino: non sapevano che fossi appena tornato dalla palestra. Alla sera riuscivo a metterle a letto prima di andare ad allenarmi”. Questione di priorità, equilibrio e amore.
Questo era la Mamba Mentality. Anzi, questo è la Mamba Mentality, che sopravvive in coloro che vi trovano l’ispirazione a lottare con tutte le forze a disposizione per essere la miglior versione di se stessi. Non ci sono altre possibilità: “Devi dare tutto quello che hai al gioco, alla squadra. È necessario per vincere. Per diventare un grande”. E Kobe ha dato tutto, distillando fino all’ultima goccia della sua straripante passione e lasciando un esempio in grado di andare oltre i limiti delle parole.
Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo.
E sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò,
che rimarrò per sempre quel bambino
con i calzini arrotolati
cestino della spazzatura nell’angolo
5 secondi da giocare.
Palla tra le mie mani.
5… 4… 3… 2… 1…
Ti amerò per sempre,
Kobe
Credits
Immagine interna 1: Kobe Bryant FTW - Beijing 2008 Olympic, kris krüg. Distributed under the CC BY-NC-ND 2.0 license on Flickr
Immagine interna 2: Kobe Bryant, Stefanoaica Ionut. Distributed under the CC BY 2.0 license on Flickr
Immagine interna 3: Kobe Bryant, Gene Wang. Distributed under the CC BY 2.0 license on Flickr
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