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“È stato un lungo viaggio”: Shizo Kanakuri e la maratona olimpica durata 55 anni

06 aprile 2022

Il 14 luglio 1912 è un giorno particolarmente caldo a Stoccolma e, per un ironico caso del destino, è anche il giorno in cui si disputa la gara della maratona maschile alle Olimpiadi. Trentadue gradi all’ombra, le strade sembrano sciogliersi. La competizione è partita da oltre un’ora e gli atleti sono già allo stremo. Oltre al caldo, anomalo per una tipica giornata estiva del Nord Europa, a metterci lo zampino ci sono anche le regole ferree degli organizzatori: vietato concedersi rifornimenti e non esistono pause per bere.

Così basta poco perché l’aria bollente diventi il peggior nemico dei maratoneti. In testa alla gara ci sono due atleti, diversissimi: uno è un sudafricano, uno spilungone che si chiama Ken McArthur; l’altro è un giapponese, con una fascia in testa che gli tiene indietro i folti capelli neri. Shizo Kanakuri. La sua storia è eccezionale per una serie di motivi e il più lampante è che si tratta del primo atleta giapponese inviato a partecipare alle Olimpiadi.

È lì perché potrebbe portare lustro al suo Paese: a soli 21 anni ha staccato il miglior tempo a livello mondiale sulla distanza dei 40 chilometri ed è decisamente uno dei favoriti della gara. Le cose sembrano andare alla grande, solo che quando arrivano i primi atleti a tagliare il traguardo, Shizo non è tra quelli da podio. Non è nemmeno tra i primi dieci o tra i primi venti. Tutti lo aspettano ma di lui non c’è traccia. Si tratta del primo atleta disperso durante una Olimpiade.

Shizo Kanakuri taglierà quel traguardo solo cinquantaquattro anni e otto mesi più tardi.

La scommessa dello sport giapponese

Ripartiamo dal momento che l’aveva reso il protagonista assoluto di quella gara. Due ore e trentadue minuti, il suo tempo di qualificazione migliore quell’anno. Una prestazione maiuscola, tanto che l’Impero Giapponese si convince a inviare il suo atleta a vincere la medaglia d’oro. La scuola che il ragazzo frequenta, la Tokyo Normal Higher School, raccoglie dei fondi per farlo viaggiare. Nel 1912 spostarsi dal Giappone per andare a competere in Svezia è già di per sé un’impresa olimpica.

Quel ragazzo, tutto solo, sale su un treno da Shinbashi per Tsuruga e poi prende una nave fino a Vladivostok, quindi la Transiberiana per Mosca. Ci vogliono 18 giorni di viaggio per arrivare a Stoccolma. Quando finalmente ci mette piede è già a pezzi: in quella lunga tratta non ha potuto allenarsi o mangiare come si deve. E in più il tempo non è come se lo aspettava: il luglio svedese è caldo, più di quanto potesse immaginarsi. E dire che lui è abituato a correre durante l’umida estate giapponese, nel pieno della stagione delle piogge. Ma Shizo sa che quella è la gara più importante della sua vita e che è lì a rappresentare il suo Paese.

Quando inizia la gara Shizo parte subito all’attacco e ben presto si posiziona al comando assieme al sudafricano McArthur.  I due proseguono testa a testa e dietro di loro alcuni atleti, sfiniti dal caldo, decidono di mollare la gara. Al trentesimo chilometro Shizo ha quello che potrebbe sembrare a tutti gli effetti un miraggio e che invece si rivela essere reale: dopo tanto tempo senza bere arriva al sobborgo di Sollentuna e vede nel giardino di una villetta una famiglia che tiene un picnic.

A quel punto il corpo di Shizo prende il sopravvento sulla mente e lo costringe ad avvicinarsi per chiedere aiuto, per chiedere qualcosa da bere. Nessuno può vederlo, è solo e di certo non lo squalificheranno per questo… e anche fosse chi se ne importa? Ora gli interessa solo sopravvivere. Il padrone di casa è ben contento di aiutarlo, gli offre un succo di frutta e poi gli dice addirittura di accomodarsi e riposarsi un po’. Giusto due minuti, per riprendersi dalla stanchezza. Shizo piega la testa per ringraziare, si accomoda, chiude gli occhi e si addormenta.

L’onore e la vergogna di un campione

Dorme per ore, Shizo. Il padrone di casa non lo sveglia perché non ha il coraggio di dirgli che sta perdendo la gara della vita, o forse perché non ha idea di cosa dire a quel giapponese che gli è piombato in casa ed è letteralmente svenuto sul divano. Quindi lo lascia stare. Quando Shizo riapre gli occhi è sera. McArthur ha vinto la gara, ore prima. Kanakuri non lo sa, ma la polizia svedese lo sta già cercando. Sono tutti preoccupati che possa aver avuto un malore e che sia rimasto indietro, svenuto da qualche parte.

Shizo è combattuto: da una parte la voglia di rassicurare gli organizzatori e gli atleti, dall’altra la vergogna per aver sprecato in quel modo l’occasione della vita. Decide di non dire niente a nessuno e così, in gran segreto, Shizo prende un treno fino a Stoccolma e poi ripete tutto il viaggio al contrario: Transiberiana, nave, treno. Torna in Giappone senza dire niente a nessuno. In Svezia continuano a cercarlo, il suo nome si lega indissolubilmente a un mistero che sembra uscito da un giallo: che fine ha fatto Shizo Kanakuri, la promessa dello sport giapponese?

In realtà dopo questo avvenimento curioso, Shizo torna a gareggiare. Un nome tra tanti nelle Olimpiadi del 1920 ad Anversa. Non si distingue, resta nell’ombra. E in mezzo c’è una guerra che ben presto cattura l’attenzione della stampa svedese. Poi, Kanakuri torna in Giappone, abbandona lo sport e comincia a insegnare alle scuole elementari.

Tagliare il traguardo

Nel 1967 cade l’anniversario dei cinquantacinque anni da quella Olimpiade. Il caso Shizo Kanakuri è ancora aperto in Svezia e così la stampa svedese ha un’idea: perché non mandare un giornalista in Giappone a cercare il buon vecchio Shizo per proporgli di finire simbolicamente quella maratona iniziata mezzo secolo prima? E così succede. Il giornalista trova Shizo che è ancora vivo e in salute. Un ometto di settantasei anni, padre di sei figli, nonno di una dozzina di nipoti. Si trova a Tamana, la sua città natale. Il giornalista va e, un po’ per scherzare vista l’anzianità dell’ex atleta, gli propone quella goliardica rimpatriata. Sorprendentemente Shizo accetta. Quel fascicolo lì è una pratica aperta anche per lui. E poi arrivare a Stoccolma è diventato decisamente più semplice.

Shizo Kanakuri, con il cappotto spesso contro il freddo, mette nuovamente piede in quel giardino di Sollentuna. Lo stesso dove il padrone di casa l’aveva tentato con il succo di frutta, una vita fa. Scambia due chiacchiere col figlio dell’uomo, in ricordo dei vecchi tempi. E poi comincia a correre. Passi veloci, il fiato non è più quello di un tempo, e nemmeno le gambe. Entrato nella pista di atletica dello stadio di Stoccolma, avanza lentamente, un passo dopo l’altro, nel silenzio rotto solo dal suo incedere ritmato e dalla respirazione affannosa.

Quando arriva al traguardo, con un colpo di reni taglia il nastro, alza le mani e sorride ai fotografi che commossi lo immortalano in quell’universale gesto di vittoria. Il caso è chiuso. Le sue prime parole sono: “È stato un lungo viaggio”.

Credits

Cover: Japanese athletes, 1920. Photo by Bain News Service, distributed under a CC-PD-Mark license via Wikimedia

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