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Il potenziale linguistico delle favole della buonanotte

01 gennaio 2019
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Raccontare favole ha assunto oggi una connotazione prevalentemente negativa: nel linguaggio figurato, chi “racconta favole” viene etichettato come una persona poco affidabile e portata a illudere gli altri. Eppure, leggere ai propri figli le storie con cui tutti siamo cresciuti significa aiutarli a comprendere meglio il mondo e consegnare loro gli strumenti necessari per affrontare le difficoltà.

A confermarlo, in tempi recenti, sono stati anche un gruppo di ricercatori della Ohio State University, che hanno infatti coniato l’espressione “million word gap” per indicare il divario di parole apprese tra i bimbi cui vengono lette le favole della buonanotte e quelli che non hanno questa fortuna. Secondo lo studio, coordinato da Jessica Logan, leggere cinque storie al giorno al bimbo, durante i primi anni di vita, significa arricchire in maniera significativa il suo vocabolario: stando ai dati della ricerca, i bambini abituati ad ascoltare storie arriverebbero a iniziare la scuola elementare con un bagaglio di un milione e mezzo di termini in più rispetto ai coetanei “senza favola”.

La ragione di questo divario non è difficile da intuire: ascoltare storie significa essere trasportati in mondi diversi e in situazioni differenti, dove si ascoltano parole che non emergono nelle conversazioni usuali che i bambini hanno con gli adulti. È abbastanza improbabile che possa emergere, in una normale discussione tra genitori e figli, un riferimento a giganti, nani o anche solo a palazzi nel deserto e burattini con l’abbecedario.Va inoltre fatto notare che il numero di parole cui si fa riferimento col “million word gap” è indicativo e quasi certamente arrotondato per difetto: questo perché quasi mai il narratore di una storia sta troppo attento a rispettare la fonte originale. Quando si racconta una fiaba, la si infarcisce di dettagli inventati, magari per rispondere alle domande poste da chi la sta ascoltando: ciò aumenta di molto i termini utilizzati che potenzialmente verranno mandati a memoria.

Le favole non si limitano però a migliorare il vocabolario dei bambini e non hanno risvolti positivi solo per il linguaggio. Il tempo dedicato alla loro lettura è prezioso perché infonde un senso di sicurezza al bambino, che si sentirà protetto e amato. Viene infatti a crearsi, tra chi legge e chi ascolta, uno spazio intimo che favorisce il dialogo tra le due parti: si può partire da una domanda innocente, come il classico “perché?”, e arrivare a trovare dei modi nuovi per scambiarsi le esperienze e i punti di vista in maniera giocosa e leggera. Un grande scrittore di favole come Gianni Rodari in Grammatica della fantasia scriveva che: “Prima di tutto la fiaba è per il bambino uno strumento ideale per trattenere con sé l'adulto. La madre è sempre tanto occupata, il padre appare e dispare secondo un ritmo misterioso, fonte di ricorrenti inquietudini. Di rado l'adulto ha tempo di giocare con il bambino come piacerebbe a lui, cioè con dedizione e partecipazione completa, senza distrarsi. Ma con la fiaba è diverso. Fin che essa dura, la mamma è lì, tutta per il bambino, presenza durevole e consolante, fornitrice di protezione e sicurezza”. La voce della mamma, continuava Rodari, non racconta solo di Cappuccetto Rosso o Pollicino ma soprattutto di se stessa: anche solo il tono di voce usato dà infatti tante informazioni addizionali al bimbo.

Elisabetta Mauti è una scrittrice di racconti per l’infanzia ma è anche conosciuta per i libri in cui aiuta i genitori a costruire un dialogo proficuo con i propri figli, come: Tutta un'altra storia. Come spiegare ai bambini la diversità e Le fiabe per insegnare le regole: Un aiuto per grandi e piccini. In un’intervista a La Repubblica, l’autrice ha consigliato agli adulti di fare attenzione non solo a quello che comunicano, ma anche al modo in cui lo fanno: “Loro (i bambini) imparano da quello che vedono: cercano di carpire quello che per noi è importante e lo fanno osservandoci, continuamente. Consideriamo poi che capiscono poco di quello che diciamo loro: noi diamo per scontato che colgano logiche, ragionamenti, perfino giri di parole che per un bambino risultano del tutto astrusi. Allora che fanno? Drizzano le antenne e cercando di trovare coerenza tra parole e fatti. Se aggiungiamo che sono più bravi di noi a cogliere il linguaggio non verbale, emerge che hanno un quadro di noi più chiaro di quello che vogliamo dargli. Per questo conta quello che facciamo, più di quello che diciamo”.

A tutto questo va aggiunto anche il valore della favola in sé per sé, come faceva notare lo psichiatra e psicoanalista austriaco Bruno Bettelheim. Secondo Bettelheim, non bisogna mai dimenticare l’importanza dei messaggi positivi che vengono trasmessi attraverso una fiaba: esse ci ricordano, per esempio, che la vita può essere affrontata con la fiducia di poter superare le difficoltà e che possiamo accettare con serenità eventuali sconfitte. Questi sono insegnamenti universali che hanno valore in qualunque contesto. Non è un caso che certe situazioni si ripetano in tutti i racconti e ci siano ruoli ben definiti e immediatamente chiari: un antagonista, un aiutante e un eroe.

La psicologa infantile Sally Goddard Blythe, autrice del libro The Genius of Natural Childhood: Secrets of Thriving Children ha ammonito: “La cosa più importante da ricordare è che i bambini intendono queste storie nella misura in cui sono capaci di capirle alla loro età. I personaggi possono sembrare poco familiari al bambino, ma anche lui comprende subito che i problemi e gli stati d’animo dell’eroe sono spesso simili ai suoi”. Le storie permettono in questa maniera di decodificare alcune delle sensazioni che in giovanissima età si fa ancora molta fatica a capire. Goddard Blythe fa l’esempio de Il brutto anatroccolo. Il bambino comprende immediatamente il disagio del protagonista e la sua difficoltà nel venire accettato: di fatto chiunque si è sentito fuori posto almeno una volta ed è facile mettersi nei suoi panni. A questo punto, è quasi automatico che l’ascolto di questa favola porti il bimbo a familiarizzare con concetti fondamentali, come quello di empatia. Il brutto anatroccolo si rivela quindi perfetto per insegnare a essere sempre gentili per non ferire il prossimo e a non giudicare nessuno dall’apparenza: si tratta di lezioni importanti, che andrebbero assimilate il prima possibile.

La favola, d’altronde, rappresenta da sempre un modo efficace di trasmettere determinati valori. Questo tipo di racconto si rivela ancora oggi ideale per presentarli in una maniera pratica e simpatica, senza il peso del giudizio morale. Le fiabe infatti non mettono mai alla berlina il personaggio, ma al massimo criticano la sua condotta. È per questo, forse, che filosofi come Socrate e Platone provavano tanto interesse per le storie di Esopo, scritte un paio di secoli prima. Un altro dei più importanti scrittori di fiabe della storia, il francese La Fontaine, ricordava sempre che la favola doveva porsi un duplice obiettivo: “piacere” e “istruire”. Un proposito che derivava dalla formula latina “placere et docere”. Una prima lettura serviva solo ad appagare l’umana voglia di ascoltare una buona storia ma in seguito bisognava rileggere, per cogliere meglio il senso profondo del racconto e il suo insegnamento.

Oggi troppo spesso sottovalutiamo le potenzialità delle fiabe e l’importanza di un rito familiare come quello della favola della buonanotte. In realtà, l’ascolto di certe storie è un passo fondamentale per la propria crescita, in quanto aiuta lo sviluppo cognitivo e il potenziamento di doti fondamentali come l’intelligenza emotiva. Un genitore che narra una fiaba al proprio figlio è un genitore migliore e, soprattutto, fa crescere un bambino migliore, più felice e consapevole.

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