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Come Gualtiero Marchesi portò l’arte e il design nella cucina italiana

05 giugno 2019
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La Milano in cui nel 1977 Gualtiero Marchesi decise di aprire il suo primo ristorante stava già vivendo la transizione che l’avrebbe resa la città che è oggi: la più cosmopolita in Italia, anche nell’approccio con la ristorazione. Negli anni Settanta, la città meneghina ha iniziato a ridurre lo spazio dedicato alle sue storiche osterie, quelle con pochi piatti nel menù e caratterizzate da un’atmosfera conviviale. A sostituirle o affiancarle, in molti casi, erano ristoranti diversi, con un’attenzione alla tradizioni regionali e più vicini nello stile del servizio ai locali di oggi. Nel capoluogo lombardo iniziarono a incontrarsi le cucine delle diverse regioni italiane: chi arrivava da Abruzzo, Sicilia, Veneto, Toscana o Sardegna spesso apriva un ristorante e lo faceva proponendo ai clienti i piatti con cui era cresciuto. Milano diventò in breve tempo il crocevia di tutte le culture culinarie italiane, ma nessuno osava ancora ibridare questo patrimonio con quello di altri Paesi del mondo. Nessun cuoco italiano si sarebbe mai sognato in quel periodo di parlare di arte, di design, di contaminazioni con la ristorazione straniera per spiegare la sua cucina, perché era ancora lontana l’idea che la cucina dovesse essere raccontata e usata come mezzo di espressione.

Il coraggio di rinnovare, provando a migliorare la cucina italiana, poteva venire solo da un rivoluzionario dal temperamento artistico come Gualtiero Marchesi. Il fondatore del centro di cultura enogastronomica Altopalato, Toni Sarcina, spiega bene quanto sia importante l’eredità di Marchesi: “Lui era un precursore. Vedo i grandi chef odierni, che sono orgogliosi delle loro innovazioni, ma noto che Marchesi in molti casi c’è arrivato assai prima. Non con emulsioni, sferificazioni, sifonate, eccetera. Non servivano. Lui faceva delle cose che chiamava ‘Oggi…’: voleva dire che ti avrebbe portato circa 14 assaggi sublimi, ricordo una parmigiana di melanzane in un cucchiaio da dessert. La mangiavi, era un sapore assoluto. Questo, molto prima di Adrià. Era un percorso di un’intelligenza assolutamente superiore che nessuno potrà mai replicare”.

Gualtiero Marchesi fece fare l’ultimo step alla nostra cucina e completò una transizione già in atto portando nel nostro Paese l’alta cucina: distrusse tutte le convenzioni e creò piatti innovativi per un nuovo tipo di clientela. Una clientela che desiderava che anche un atto apparentemente necessario e privo di poesia come mangiare potesse trasformarsi in un’esperienza in grado di appagare i cinque sensi e arricchire il proprio patrimonio culturale. Marchesi citava spesso l’artista Toulouse Lautrec per spiegare quanto la sua cucina necessitasse di una minima preparazione culturale per essere apprezzata: “La cucina non è destinata agli incivili, ai rozzi e ai filistei”.

Già al Mercato, l’albergo di famiglia, lo chef aveva iniziato a rivisitare i classici della cucina ma è al Marchesi, lo storico ristorante in Via Bovesin della Riva, che il cuoco lombardo si creò una clientela di alto livello che cresceva con lui: “Lentamente, ma non troppo, i miei clienti diventarono più raffinati”, spiegava. Marchesi è il primo in Italia a proporre nel suo locale la porzione unica e la carta dei vini: come tanti precursori non dà al pubblico quello che vuole ma gli mostra ciò che non sa ancora di volere.

L’impatto di Gualtiero sulla storia della ristorazione italiana è simile a quella che, un decennio prima, avevano avuto i Beatles nella musica. Come il quartetto di Liverpool, anche Marchesi, che si considerava un compositore più che un cuoco, aveva l’intelligenza di creare rielaborando in maniera intelligente le suggestioni del passato. Nel documentario Gualtiero Marchesi - The Great Italian, presentato nel 2017 a Cannes, lo chef Massimo Bottura ricorda come un grande merito di Marchesi sia stato  proprio “portare il meglio del passato nel futuro”. Ne è un esempio la sua rivisitazione di un piatto come la cotoletta alla milanese: nella versione “marchesiana” la costoletta di vitello viene ridotta in croccanti bocconcini, migliorando non solo l’aspetto, ma anche il sapore del piatto, che non rischia di essere troppo cotto. Ne Il Codice Marchesi, nella parte dedicata al Raviolo Aperto lo chef ha scritto: “La tradizione non è altro che un’innovazione che ha avuto successo, in quanto buona. Un prodotto, un piatto o un locale diventano tipici quando e se capaci di suscitare un mito, vale a dire comunicare una sensazione chiara e netta, riconoscibile e riconosciuta da molti, se non da tutti”. Per Marchesi la tradizione non va dimenticata né assimilata come un dogma, ma pensata come una base da cui partire per creare un piatto con una propria identità autonoma.

“Ogni cucina, come qualsiasi attività artistica, per essere vera deve interpretare il periodo storico nel quale nasce e si sviluppa, con un’opera di recupero continua del passato e di proiezione verso il futuro”, diceva Marchesi che considerava il suo lavoro come una disciplina artistica nutrita dall’arte stessa. Gualtiero era cresciuto con i maggiori esponenti dell’arte italiana della sua epoca e da loro aveva tratto ispirazione: le serate trascorse in compagnia di Pietro Manzoni, Calvi, Armando Pomodoro e Lucio Fontana arricchivano il suo pensiero e il suo approccio ai fornelli. “La bellezza e la perfezione non si fanno capire. E amo la cucina come pura forma d’arte. Cucinare non è la mia ambizione, è un modo per esprimermi”, diceva Marchesi. Prese la tecnica del dripping direttamente dalla pittura di Jackson Pollock e la tradusse nel Dripping di Pesce, piatto ancora oggi tra i suoi più amati e copiati. Tra le sue ricette si ricordano altre opere d’arte come l’Achrome di Branzino, creato come omaggio all’amico Manzoni, Sapere di sapori zen, ispirato al pittore cinese Hsiao Chin e Uovo al Burri, dedicato all’omonimo artista.

Gualtiero Marchesi non ebbe neanche il timore di rivisitare un simbolo culinario italiano come la pasta. Ne Le Quattro paste, ha portato quattro varietà diverse a dialogare con la pop art, ispirandosi alle Marylin delle serigrafie di Andy Warhol, accostando quattro tipi diversi di pasta accomunati dallo stesso condimento. In questo piatto si nota anche l’attenzione al design di Gualtiero Marchesi. Come nel Dripping di Pesce è presente una grande attenzione al rigore, all’asimmetria e alla geometria che guidano gli ingredienti nel piatto. Il Maestro mutuava in cucina concetti cari agli architetti e ai designer, ponendo l’accento sulla simbiosi tra forma e materia e curando l’impiattamento, con un’attenzione che richiamava l’arte giapponese della disposizione delle pietanze.

L’impatto di Marchesi nei suoi ristoranti non si limitava solo alla cucina, dato che disegnava personalmente le tovaglie, i bicchieri, le posate e i piatti presenti nei suoi locali. Tutto era considerato determinante nell’esperienza di una cucina che veniva definita dallo stesso autore “totale”. Come un architetto, Gualtiero conosceva l’importanza della “casa” in cui si allocava il piatto e il cliente doveva essere appagato dalla componente estetica quanto da quella culinaria.

Il Risotto oro e Zafferano era quello che, a detta del suo creatore, meglio riassumeva la sua filosofia estetica: essenziale, senza fronzoli e dominato da una foglia d’oro, in omaggio alla Madonnina in cima al Duomo, per creare un ulteriore legame con Milano.

La cucina di Gualtiero Marchesi si nutriva di pochi ingredienti, scelti con logica e attenzione alla qualità, perché il prodotto non doveva mai perdere la propria centralità. Doveva essere tutto visibile a un primo sguardo: Marchesi guardava con sospetto alla consuetudine, frequente nel mondo dell’alta cucina, di nascondere i sapori o creare commistioni artificiali in laboratorio. Ancora una volta lo chef si ispirava alla scuola nipponica, sempre molto attenta a valorizzare le materie prime anche con la loro presentazione nel piatto. Per spiegare questo concetto Marchesi era solito citare il filosofo Martin Heidegger con l’aforisma “L’arte non è che porre in opera la verità”.

Oggi la cucina italiana è un riferimento internazionale anche perché Gualtiero Marchesi ha permesso agli chef italiani di capire che dovevano valorizzare, e non nascondere, la sua tradizione. La verità da porre in opera era a portata di chiunque avesse la volontà di trasformarla in arte o almeno in uno sforzo creativo. Il primo vero chef-star della storia, il francese Paul Bocuse, aveva ragione quando diceva che il cuoco italiano doveva solo riscoprire ciò che gli offriva il patrimonio del suo Paese. Marchesi non ha migliorato solo i colleghi ma in generale il rapporto con il cibo di un’intera nazione: oggi si dà sempre più importanza a cosa mangiamo e a come lo facciamo, mentre la cucina è un’argomento di conversazione sempre più condiviso. Gualtiero Marchesi ci ha ricordato che cucinare è una parte integrante della nostra vita. Se siamo quello che mangiamo, tanto vale farlo bene.

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