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Perché dovresti lavorare sulla tua intelligenza emotiva

23 aprile 2020
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Il World Economic Forum nel report annuale sull’andamento del mercato del lavoro ha inserito l’intelligenza emotiva nella lista delle dieci competenze più richieste dalle aziende nel 2020, precisamente al sesto posto, dandone questa definizione: la capacità di saper leggere e interpretare umori ed emozioni di manager e colleghi, e trarne, di riflesso, un vantaggio per i propri obiettivi.

Se hai difficoltà a lavorare in team, ti capita a volte di non riuscire a dare un nome alle emozioni che provi e fai fatica a riconoscere i tuoi punti di forza e di debolezza, probabilmente significa che il tuo quoziente emotivo è basso. La buona notizia è però  che l’intelligenza emotiva si può allenare, come sostiene anche Daniel Goleman, lo psicologo americano che negli anni Novanta ha teorizzato l’importanza della sfera emozionale per ambire ad alti gradi di leadership. Nell’articolo What Makes a Leader pubblicato sull’Harvard Business Review, lo studioso spiega che “una persona può avere la migliore formazione del mondo, una mente analitica e una serie infinita di idee brillanti, ma senza carica empatica non riuscirà mai a influenzare le scelte di chi gli sta accanto”.

Posto che un quoziente intellettivo alto non assicura automaticamente il successo, e va coltivato al pari di altre abilità più “sociali”. Facile a dirsi, un po’ più complicato a farsi, soprattutto in alcuni contesti aziendali italiani dove si tende a considerare le emozioni come una sorta di barriera in ambito decisionale, preferendo applicare l’approccio logico-razionale, come attesta un’indagine di Six Seconds per cui il nostro Paese risulta al di sotto della media internazionale sul tema. La differenza tra una formazione basata unicamente sulle cosiddette “hard skills” a dispetto delle competenze “soft”, nel lungo periodo ha un impatto anche dal punto di vista remunerativo: lo dimostra una recente ricerca effettuata su un campione di 42mila lavoratori da TalentSmart, società di consulenza cui si affida oltre il 75% delle Fortune 500. Le persone con alti livelli di intelligenza emotiva guadagnano in media 29milla dollari in più ogni anno rispetto ai “colleghi” con quoziente emotivo basso. Nel grafico ogni punto guadagnato sull’asse dell'intelligenza emotiva accresce di 1.300 dollari lo stipendio su base annua.

Questo perché chi sviluppa maggiore carica emozionale porta più valore alla propria azienda: comunica meglio, reagisce proattivamente a situazioni di stress, rende il proprio team più produttivo, prende decisioni migliori senza che nessun sentimento negativo riesca ad offuscare il proprio operato. L’elenco dei vantaggi potrebbe continuare all’infinito. TalentSmart offre quattro consigli per raggiungere un alto grado di intelligenza emotiva e ambire ad una posizione di leadership all’interno di un organigramma aziendale: aumentare la consapevolezza in se stessi, dedicare del tempo all’auto-analisi dopo una sconfitta o un risultato negativo, mostrare empatia verso i propri sottoposti e non nascondere mai le proprie emozioni.

Secondo John Gottman, psicologo americano e autore del libro “Intelligenza emotiva per un figlio”, la carica emotiva viene trasmessa fin dalla culla e la prima scuola è la famiglia. I bambini emotivamente allenati ottengono migliori risultati a scuola, stabiliscono relazioni più positive con i coetanei e si riprendono più rapidamente dopo esperienze negative. È compito, quindi, dei genitori instradarli fin dai primi anni di vita.

Il Dr. Marcello Mortillaro, ricercatore capo del Swiss Center for Affective Sciences dell’Università di Ginevra

Marcello Mortillaro, ricercatore capo del Swiss Center for Affective Sciences dell’Università di Ginevra, ritiene che anche lo sport abbia un ruolo determinante per la formazione emotiva di un individuo. “In questo senso abbiamo avviato un progetto riservato ai bambini e ai ragazzi tra gli 8 e i 16 anni in collaborazione con la UEFA, il massimo organo calcistico europeo,” racconta a Youmanist lo psicologo milanese. “L’obiettivo è creare dei momenti di ascolto e di riflessione condivisa slegati dalla pratica agonistica, a fine allenamento ad esempio, in cui ognuno possa esprimere il proprio stato d’animo. Allenatori e giocatori, nessuno escluso. Abbiamo scoperto che mentre nei primi si sviluppa una maggiore capacità di comprensione e di risposta alle gioie e alle inquietudini dei ragazzi, nei secondi abbiamo si riscontrano effetti benefici a livello di autostima e di coesione del gruppo”. Una strategia “Win-win”, insomma.

Per chi non ha “allenato” la sfera emozionale fin dalla giovane età, invece, vengono in aiuto corsi professionali ad hoc, che prendono spunto da studi di premi Nobel per l’Economia comportamentale come Daniel Kahneman (2002) e Richard Thaler (2017). “Prima di iniziare bisogna comprendere il significato intrinseco di intelligenza emotiva,” continua Mortillaro. “L’errore più comune è limitarsi ai propri sentimenti e al proprio comportamento, mentre l’io è solo una parte, la prima, dell'equazione. Aumentare il quoziente emotivo vuol dire progredire anche nella comprensione delle emozioni altrui e trovare una risposta adeguata ad esse”. Che ne siamo consapevoli o meno, la motivazione dietro ogni azione (non importa quanto piccola e insignificante) è intrinsecamente emotiva. Questo perché il nostro cervello è strutturato in modo tale che le emozioni siano la scintilla di tutti i comportamenti.

I nostro cervello è formato da tre parti principali: la base controlla il comportamento automatico ed istintivo. Il sistema limbico controlla l'espressione delle emozioni, l'aggressività e il comportamento sessuale. La terza e più evoluta, la neocorteccia, presiede al pensiero propriamente razionale e alla capacità di risoluzione dei problemi. Ogni segnale che arriva al cervello, dunque, ottiene una prima reazione emotiva agli eventi che viene razionalizzata solo in un secondo momento. Insieme al suo team di ricerca, Mortillaro è riuscito a mettere a punto il primo test al mondo che misura la competenza emotiva in ambito professionale (il nome scientifico è GEco), agendo al confine tra il sistema limbico e la neocorteccia e provando a razionalizzare ogni sentimento nelle relazioni lavorative.

“L’insieme di criteri e di regole che abbiamo considerato nella nostra analisi è applicabile solo all’ambiente lavorativo,” prosegue il ricercatore. “Partiamo infatti dall’assunto secondo cui la capacità di relazionarsi con i colleghi e i propri datori di lavoro sia diversa da quella che usiamo nella nostra sfera personale con famiglia e amici. Si tratta delle stesse competenze, ma che si declinano in maniera diversa: tutti noi conosciamo persone che al lavoro sono amabili e poi a casa sono intrattabili o viceversa”.

Il test inserisce l’utente all’interno di diversi scenari sfavorevoli e valuta il suo atteggiamento. Che fare se un mio collega commette un errore, ma la colpa ricade su di me? Come faccio a licenziare qualcuno cui sono particolarmente legato? O ancora: come reagisco se Ceo non riconosce i miei meriti? Ogni specifica situazione ha solo una risposta corretta che corrisponde a quella che riduce maggiormente l’emozione negativa, disperdendola e concentrando l’attenzione su un aspetto positivo. Oggi questa valutazione viene usata dai dipartimenti di Risorse Umane di diverse società europee per assumere candidati, soprattutto in posizioni apicaliPer ora esiste solo in lingua inglese, tedesca e francese, ma entro il prossimo autunno verrà tradotta anche in lingua italiana, all’interno di un’edizione adattata al contesto aziendale del nostro Paese. Un punto di partenza per avvicinarci sempre più al modello di scalata sociale teorizzato da Goleman.

Articolo di Matteo Zorzoli

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