L’idea di sconfiggere la vecchiaia e la morte trovando un elisir di lunga vita è antica come l’uomo, unendo nella ricerca di un elisir di lunga vita sapienti, maghi e scienziati di tutte le epoche. Secondo Vadim Gladyshev – docente presso il Brigham and Women’s Hospital di Boston ed esperto dei meccanismi di ossidoriduzione in biologia – l’invecchiamento è l’accumulo di cambiamenti deleteri nell’organismo, dal mutamento dei batteri che popolano l’intestino ai diversi gradi di metilazione, cioè di modificazioni del DNA. Capire come e perché questo accada, e se sia possibile evitarlo, è compito dell’epigenetica, un ambito di studio in rapida evoluzione incentrato sui cambiamenti nei geni e nel DNA all’origine anche delle malattie; alcuni meccanismi epigenetici servono infatti proprio a proteggere le cellule e riparare i danni del DNA, ma diventano meno efficaci con l’avanzare dell’età.
In questo modo fanno la loro comparsa i cosiddetti “acciacchi dell’età”, che lasciano poi il passo a problemi più gravi come mal funzionamento degli organi, pressione alta e altre patologie, fin dai tempi antichi viste come naturale complemento della vecchiaia, a sua volta inevitabile. Oggi diversi scienziati stanno però mettendo in dubbio la “naturalezza” di questi processi, chiedendosi se l’essere umano non possa vivere molto più a lungo – potenzialmente all’infinito – e se dall’invecchiamento stesso si possa guarire, come da una qualsiasi malattia.
Tra questi scienziati c’è David Sinclair, biologo e genetista della Harvard Medical School, per cui se l’invecchiamento fosse classificato come una patologia potremmo affrontarlo direttamente, invece di curare singolarmente le malattie che tipicamente lo accompagnano. Quindi, se l’età avanzata è una patologia, come tutte le patologie può essere curata: scoprire come farlo dovrebbe essere una priorità, considerando l’invecchiamento della nostra società e l’elevata incidenza di patologie correlate all’età. Sinclair ritiene infatti che l’invecchiamento vada inserito nella lista ufficiale delle patologie della statunitense Food and Drug Administration (Fda) e delle altre autorità sanitarie, che con i loro regolamenti stabiliscono quali farmaci possono essere commercializzati e per quali malattie possono essere prescritti. “Se l’invecchiamento fosse una patologia curabile, allora nella ricerca verrebbe investito denaro”, sottolinea Sinclair.
Per questo lo scorso anno un gruppo di associazioni ha chiesto all’Organizzazione Mondiale della Sanità di includere l’invecchiamento nella sua ultima revisione della classificazione ufficiale delle malattie. Nonostante l’Oms abbia rigettato la proposta, l’indicazione “aging-related” (invecchiamento-correlato) è stata inclusa come estensione da applicare a una patologia per indicare che l’età avanzata aumenta il rischio di esserne affetti. Potrebbe trattarsi di un primo passo verso un radicale cambiamento di prospettiva, anche se non tutti la condividono.
Per esempio Eline Slagboom – biologa ed epidemiologa molecolare specializzata nell’ambito della longevità presso il centro medico dell’Università olandese di Leida – pensa che non sarebbe un bene trasformare un tema di interesse scientifico in una discussione commerciale o politica. Secondo la scienziata, inoltre, considerare l’età come una malattia curabile farebbe passare in secondo piano l’importanza di condurre uno stile di vita attivo e di seguire una dieta salutare, fondamentale per prevenire tante patologie oggi sempre più diffuse.
Secondo Nir Barzilai, direttore dell’Istituto per la Ricerca sull'Invecchiamento presso l’Albert Einstein College of Medicine di New York e direttore del Longevity Genes Project – che studia i segreti genetici degli ultracentenari –, definendo patologico l’invecchiamento si rischierebbe di creare un’ulteriore fonte di discriminazione, attribuendo agli anziani un’etichetta di cui non hanno affatto bisogno. Trattarli come malati, secondo Barzilai, non farebbe che aggiungere un ulteriore stigma a quello già di per sé rappresentato dalla vecchiaia nella nostra società.
A prescindere dalle diverse posizioni sul tema, si è aperto il dibattito su un argomento da sempre considerato come un assioma indiscutibile, rimettendo in discussione le certezze, e arrivando a chiedersi se sia davvero necessario morire. Secondo alcuni studi, il limite dell’essere umano sarebbe di circa 115 anni di età e i dati demografici mostrano che il record di longevità umana non è sostanzialmente cambiato dagli anni Novanta a oggi. Inoltre, se nell’Europa in testa alle classifiche di longevità internazionali si muore in media intorno agli 80 anni, è chiaro che il vero sforzo globale sia quello di garantire a tutti gli abitanti del Pianeta di raggiungere una condizione simile.
La popolazione anziana è infatti in crescita in gran parte dei Paesi industrializzati e per questo, secondo Brian Kennedy, direttore del Centro per un Invecchiamento in Salute di Singapore e docente di biochimica e fisiologia alla National University di Singapore, è urgente riuscire a mantenerla attiva e in salute. Il prezzo da pagare in caso contrario sarebbe un pesante problema di qualità della vita e un altrettanto grande crisi sul piano economico. Dobbiamo quindi imparare a rallentare l’invecchiamento.
Intanto, Eline Slagboom sta sviluppando dei test per individuare chi stia invecchiando a una velocità normale e chi, invece, abbia un corpo più predisposto all’invecchiamento precoce. Capire l’età biologica di una persona è infatti utile a capire come meglio trattare le sue malattie, specialmente se legate all’età avanzata. Per esempio, se un settantenne con pressione moderatamente elevata ha il sistema circolatorio di un ottantenne, la pressione sanguigna può aiutare a irrorare correttamente il cervello, mentre se ha il fisico di un sessantenne, probabilmente avrà bisogno di un trattamento sanitario. I cambiamenti stessi che avvengono nell’organismo con il passare degli anni, infatti, possono essere utili unità di misura biologiche per monitorare il funzionamento e l’efficacia dei medicinali nei confronti dell’invecchiamento.
L'obiettivo dei ricercatori si sta concentrando sul miglioramento del cosiddetto health span, cioè l’arco di tempo in cui le persone restano attive, autonome e in salute. La via farmacologica per garantirlo potrebbe nascondersi in trattamenti comuni come la metmorfina, un diffuso farmaco per il diabete che gli studi ritengono efficaci anche nel proteggere contro l’Alzheimer e il tumore. Si tratta di un farmaco della classe chiamata dei mTOR inibitori, che interferiscono con una proteina coinvolta nella divisione e nella crescita delle cellule; inibendo l’attività della proteina, gli scienziati pensano di poter replicare i benefici di una dieta ipocalorica; siccome l’organismo risponde alle restrizioni caloriche moderate prendendo misure preventive, somministrare metmorfina a pazienti sani potrebbe contribuire a rallentare l’invecchiamento, fermando la senescenza delle loro cellule, e rafforzando il loro sistema immunitario.
Per questo il dott. Barzilai è alla guida della sperimentazione TAME (Targeting Aging with Metformin, ossia “affrontare l’invecchiamento con la metmorfina”) sugli esseri umani, per somministrare il farmaco a un gruppo di persone tra i 65 e gli 80 anni e verificare se rallenta la comparsa di tumori, demenza e infarto. Un’altra classe di farmaci che potrebbero colpire e rimuovere le cellule senescenti – all’origine di diversi disturbi associati alla vecchiaia, dall’aterosclerosi alla cataratta, dal Parkinson all’osteoartrite – da tessuti altrimenti sani sono i senolitici, che spingono le cellule invecchiate ad auto distruggersi in modo che il sistema immunitario possa poi smaltirle ed eliminarle. Gli studi hanno dimostrato che, con questi farmaci, le cavie invecchiano più lentamente.
Se i farmaci si dimostreranno davvero in grado di rallentare i cambiamenti che sono l’origine del processo di invecchiamento, questo si potrà davvero considerare come una patologia. Classificarlo come tale comporterebbe un altro grosso beneficio per David Gems, docente di biologia dell’invecchiamento all’University College London: permetterebbe di bloccare i prodotti che si spacciano per anti-età miracolosi. I produttori, infatti, oggi possono promettere nella pubblicità molto più di quanto questi rimedi siano in grado di garantire, dato che la vecchiaia non è una malattia sul piano legale. A febbraio, per esempio, la Fda ha dovuto dichiarare che le trasfusioni di sangue di individui giovani – una procedura costosa e sempre più popolare – non hanno benefici clinici comprovati, ma non ha potuto vietare le iniezioni in toto perché, chiamandole “trattamento anti-age”, le aziende evitano lo stretto controllo sulle medicine rivolte a una specifica malattia. Questo non potrebbe più accadere se la vecchiaia fosse riconosciuta ufficialmente come malattia. Una malattia che in futuro si potrà prevenire e persino guarire, avvicinandoci di un altro passo all’immortalità che la razza umana sogna di conquistare dalla sua comparsa sul pianeta Terra.
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