Duncan Jones è un regista di fantascienza che nasconde dietro un nome tutto sommato anonimo l’eredità di un genitore importante, che anni prima per ragioni artistiche rinunciò al comune cognome “Jones” per sostituirlo con quello con cui tutto il mondo lo ha conosciuto: “Bowie”. Duncan Jones non ha seguito le orme paterne dedicandosi alla musica: ha preferito i film, ma in fondo questa scelta sembra essere tutto meno che un tradimento nei confronti del padre. Nel successo di David Bowie l’immagine ha avuto infatti un ruolo importante, risultando fondamentale per la creazione del suo personaggio.
Bowie ha più volte confessato di essere pienamente cosciente del legame simbiotico e indissolubile che da sempre lega musica e arti visive. Per questo ha dimostrato, ben prima che esplodesse la moda dei videoclip, un’attenzione ai tempi inedita per tutti gli aspetti visivi in grado di valorizzare ancora di più le sue produzioni musicali. Il cantante è stato straordinario davanti alla telecamera e alla macchina fotografica quanto lo è stato dietro al microfono e, per averne conferma, basta notare come la sua evoluzione musicale sia andata di pari passo con i cambiamenti del suo stile, che è andato dal look alieno di Ziggy Stardust a quello elegante e sobrio del “White Duke”, la sua incarnazione sul palco tra il 1975 e il 1976. In generale, l’attitudine al travestimento non è stata mai davvero abbandonata da Bowie, neanche nelle sue esperienze parallele al percorso musicale: un esempio ne è il ruolo in un film fantasy cult degli anni ’80, Labyrinth, in cui l’autore di Heroes interpretava la parte del re dei Goblin.
Nel corso della sua carriera, ogni cambiamento di direzione artistica ha coinciso con un mutamento dell’estetica. Lo documenta bene anche un volume di recente pubblicazione in Inghilterra, David Bowie: Icon, che restituisce tutto l’istrionismo dell’artista, osservato attraverso l’occhio di 25 diversi fotografi.
Il giornalista Nicholas Coleridge, da sempre ammiratore dichiarato di Bowie, afferma che il Duca Bianco è probabilmente la rockstar che ha collaborato con il maggior numero di grandi fotografi, dimostrando un’insindacabile abilità nel riconoscere i migliori professionisti cui affidare la propria immagine. Scorrendo l’elenco di quelli che hanno lavorato con lui si incontrano alcuni dei più apprezzati artisti degli ultimi decenni, dal giapponese Masayoshi Sukita all’olandese Anton Corbijn – poi regista di uno dei biopic musicali migliori degli ultimi anni: Control, sul leader dei Joy Division Ian Curtis. Secondo Coleridge: “Tutti hanno giocato un ruolo nell’amplificare, perfezionare e a volte persino definire l’immagine di Bowie”.
Colui che ci è riuscito però forse meglio degli altri è Mick Rock, da molti definito “l’uomo che ha fotografato gli anni Settanta”. Rock è l’autore di alcuni degli scatti più iconici e fuori dagli schemi del cantante, accompagnato tra il 1972 e il 1973 in veste di fotografo ufficiale. L’identificazione tra chi scattava la foto e il suo soggetto era d’altronde molto profonda, al punto che lo stesso Bowie dirà che Rock era capace di “vederlo” come si vedeva lui stesso. Il rapporto tra i due cominciò poco dopo l’inizio della campagna promozionale di Hunky Dory, il disco di Bowie uscito nel 1971, quando il cantante era ancora ben lontano dal toccare l’apice della fama. Mick Rock era rimasto così impressionato da un promo dell’album da decidere di recarsi autonomamente nel backstage di un suo concerto a Birmingham, dove gli scattò la prima di tantissime foto. Il 16 giugno dell’anno seguente, la pubblicazione di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars sanciva la nascita di una delle identità parallele più famose del cantante: la rockstar aliena e androgina Ziggy Stardust che, anche grazie all’abilità del nuovo fotografo ufficiale, diventò un personaggio simbolo degli anni Settanta e della nuova scena glam-rock.
Il contributo di Mick Rock non si limitò tuttavia solo alle fotografie: fu lui infatti a dirigere molti dei video di quel periodo, in cui si vede quasi sempre David Bowie/Ziggy Stardust con i capelli rossi e con addosso l’iconica e strettissima tuta creata da Kansai Yamamoto. Quello tra Rock e il cantante inglese fu un rapporto così stretto da non esaurirsi neanche dopo la metà degli anni Settanta e la fine della collaborazione artistica: quando, nel 1996, Mick Rock verrà ricoverato in ospedale a causa di un bypass cardiaco sarà la stella della musica mondiale a mandargli un mazzo di fiori, quasi a certificare l’esistenza di un’amicizia impossibile da far appassire.
Per creare negli anni Settanta Ziggy Stardust, Bowie si era lasciato influenzare da diverse fonti: una delle principali fu sicuramente l’arte di Lindsay Kemp, un performer che il cantante definì dopo averlo incontrato “un Pierrot vivente […] (Un personaggio) tragico (nella cui vita) ogni cosa […] era teatrale. Al punto che il palcoscenico per lui era solo un’estensione di se stesso”. È a lui che David Bowie assegna il cruciale ruolo di mentore in grado di farlo appassionare al mondo del camp, del make-up e di convincerlo a scegliere un’immagine volutamente ambigua dal punto di vista sessuale. A Kemp va soprattutto dato il merito di aver fatto capire al cantante il valore di una vita vissuta come se si trattasse di un’infinita performance totale.
David Bowie ha costruito diverse identità, riuscendo a diventare quasi la personificazione delle teorie del grande sociologo statunitense Erving Goffman, secondo cui l’esistenza non è altro che una rappresentazione costante in cui l’individuo indossa costantemente diverse maschere. Nessuno forse ha interpretato meglio di Bowie la schizofrenia di una società che impone di essere pirandellianamente “uno, nessuno e centomila” grazie ai suoi molteplici tentativi di reinventarsi.
Se l’artista inglese è riuscito a rinnovare così bene e con tale continuità la sua immagine parte del merito è anche delle sue compagne di vita, che hanno sempre dato una mano al cantante quando si trattava di curare il suo stile, arrivando spesso anche a scambiare gli abiti con lui. Erano già gli inizi del nuovo millennio quando il fotografo Steven Meisel omaggiò Bowie e la prima moglie Angela ricreando sulle pagine di Vogue America una foto della coppia, facendo indossare alle modelle gli stessi vestiti portati dai due in un’immagine di anni prima.
David Bowie ha scelto spesso di connotare ogni volta le sue nuove identità con un nuovo nome, quasi si trattasse di vere e proprie rinascite, indipendenti dagli alias del passato. Ha avuto però anche tanti soprannomi affibbiatigli da altri e tra questi è quasi ironico che uno di quelli apparentemente più calzanti gli piacesse meno: “Mi chiamano camaleonte del rock. Ma il camaleonte si mimetizza per apparire il più possibile simile all'ambiente circostante. A me pare di avere fatto sempre l’opposto”.
Forse non è un caso che nell’ultimo servizio fotografico della sua vita, quello fatto per promuovere l’album Blackstar, David Bowie appaia con un abbigliamento insolitamente quasi neutro e un viso pacificato: mentre sorride sfoggiando un cappello Borsalino nero e un vestito elegante sembra quasi aver terminato le maschere da indossare. Quello che emerge alla fine nelle foto scattate da Jimmy King sembra proprio il vero David, di nuovo intero dopo essersi spezzato per decenni in vari alter ego. Le foto apparirono per la prima volta sul sito del cantante inglese. A corredo degli scatti c’era una didascalia che conteneva la domanda: “Perché quest'uomo è così felice?”. Forse, retrospettivamente, la risposta è che la contentezza esibita fosse dovuta all’aver trovato finalmente il modo di mettere d’accordo tutte le sue diverse anime.
Qualche anno fa una galleria d’arte da sempre attenta a valorizzare l’eredità dei miti della musica, la bolognese Ono Arte Contemporanea, presentò una mostra che contava oltre cento foto di David Bowie, tutte scattate dal già citato Masayoshi Sukita. Sukita era da poco arrivato a Londra per immortalare un altro gruppo glam-rock molto famoso nel 1972, i T-Rex, ma ci mise poco a capire che non poteva ignorare un artista come Bowie. Ricordando la prima volta che lo vide per caso dal vivo sul palco con Lou Reed, il fotografo nipponico disse che “Bowie era diverso dalle altre rockstar, aveva qualcosa di speciale che dovevo assolutamente catturare con la mia macchina fotografica”. È anche grazie a quel qualcosa di speciale, a quel magnetismo che attraeva tanto i fotografi, che il Duca Bianco rimane ancora tanto inimitabile e visivamente riconoscibile, persino per chi non ha mai ascoltato una sua canzone. Se David Bowie è ricordato come un grande artista tout-court uno dei motivi principali è l’aver dimostrato che si può essere un’icona senza che questo significhi rinunciare a evolversi e cambiare la propria immagine.
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