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La “Follia dello Swing”: quando il jazz cominciò a far ballare tutti

16 agosto 2018

Anni Trenta, l’epoca della "Follia dello Swing" (almeno negli Stati Uniti: in Europa ben altre follie stavano maturando). Ma cos’è stato lo Swing, e in che cosa era diverso dalla musica che imperversava nella "Età del Jazz", quegli anni Venti raccontati da Scott Fitzgerald? La differenza corre fra un tempo di incosciente prosperità e il periodo di una disastrosa crisi economica, passata alla storia come la Grande Depressione. In entrambi i casi la gente, quando poteva, ballava: ma lo spirito era molto diverso, come fra gli anni della disco music e quelli dei rave parties. D’accordo, lo swing non era clandestino, ma era altrettanto selvaggio e soprattutto coinvolgeva in modo inedito la nuova generazione. Giovani spaventati dalla disoccupazione, parcheggiati - quando potevano - nelle scuole che li spingevano a sentirsi diversi dai loro genitori. Una situazione stranamente familiare.

La crisi degli anni '30 falcidia ogni tipo di attività: una sorta di livella che rende molto più semplice ciò che resta del mercato, anche l’industria culturale. Le case discografiche in crisi, dopo i grandi guadagni del primo boom, vengono controllate dai network radiofonici. Le forme del divertimento (una distrazione disperatamente richiesta dagli americani, purché a buon mercato) si fanno più omogenee e conformiste: programmi musicali, film musicali, immense sale da ballo. Per descrivere il nuovo stile si usa una parola che circola nella comunità afroamericana, il verbo to swing, che denota vitalità e movimento; ma la società bianca lo congela in un sostantivo, lo Swing, che serve a catalogare un genere, a fissarlo entro un confine espressivo. Questa musica spettacolare e al tempo stesso semplice, lineare, esplode nel 1935 grazie al successo del clarinettista Benny Goodman e della sua big band; brani come «Sing, Sing, Sing» infiammano gli adolescenti di tutta la nazione.

Sing, Sing, Sing di Benny Goodman nella versione cinematografica del 1937. Gene Krupa è il batterista.

In effetti il termine è già usato da tempo anche nei titoli dei dischi, pur senza esigenze di classificazione. L’orchestra di Duke Ellington (che, attiva dai primi anni Venti, non si adatterà mai ai «canoni» richiesti dall’industria musicale degli anni Trenta) nel 1932 ha già dato alle stampe quello che diventerà lo slogan di un’epoca: "It don’t mean a thing if it ain’t got that swing", “non significa nulla se non swinga in quel certo modo”. C’è più ambiguità, più ironia in questa musica rispetto a quella di Goodman, ma il messaggio è altrettanto irresistibile.

Duke Ellington, It don’t mean a thing if it ain’t got that swing

Quella dello Swing è l’età in cui nascono gli standard: cioè l’epoca in cui le migliori canzoni scritte per i musical da uno stuolo di formidabili compositori (fortemente influenzati dallo spirito del jazz) diventano patrimonio comune per tutta la comunità dei jazzisti, che vi costruiscono attorno improvvisazioni sempre più mature e complesse. Il grande capostipite di questa tendenza, colui che interpretò per primo in modo jazzistico decine di canzoni, era stato l’inimitabile Louis Armstrong. Fin dal 1929 aveva anticipato lo Swing, con la sua tromba e il suo canto, incidendo quello che divenne un grande successo: "I can’t give anything but love".

L’interpretazione di Louis Armstrong di I can’t give anything but love.

L’età dello Swing declina in modi nuovi i rapporti fra la popolazione statunitense d’origine europea e l’ampia comunità afroamericana. L’interazione fra jazzisti bianchi e neri, che era stata all’opera fin dal sorgere del jazz, mette in luce una potenziale collaborazione fra le diverse etnie che è ancora ben lontana dal coinvolgere la nazione nel suo complesso. Uno dei protagonisti di questa intesa è proprio Benny Goodman che utilizza per la propria orchestra arrangiamenti di autori neri, fra i quali il grande caporchestra Fletcher Henderson, uno dei maggiori responsabili del suo successo. Anch’egli è fra gli antesignani del nuovo genere, fin dai tardi anni Venti; le sue versioni di "King porter stomp" hanno fatto scuola.

Fletcher Henderson, "The new king porter stomp", inciso nel 1932.

Certamente il modo di intendere lo Swing da parte delle big band nere e di quelle bianche è molto diverso (anche perché diverse sono le platee di ballerini a cui si rivolgono). Nei tardi anni Trenta questa differenza è ben incarnata da un lato dalla formazione del pianista nero Count Basie, proveniente da Kansas City, e da quella del clarinettista bianco newyorkese Artie Shaw.

Count Basie suona "One o’ clock jump" nel film del 1943 "Reveille with beverly".

Data la natura fortemente commerciale del fenomeno Swing, un elemento importante è rappresentato dal canto. Negli anni Trenta emergono alcune delle figure più popolari in tutta la storia della vocalità jazzistica, e anche qui le soluzioni espressive posso essere molto varie. Anche rimanendo all’interno dell’estetica afroamericana, come mostrano l’intensità emozionale della prima Billie Holiday e la disinvolta leggerezza di un’adolescenziale Ella Fitzgerald.

Ella Fitzgerald canta il suo grande successo "A-tisket a-tasket".

L’età dello Swing non è stata solo create dai suoni orchestrali; al contrario, ha messo in luce decine di grandi individualità. Ricordiamo almeno, per concludere, il monumento solistico del maggior sassofonista dell’epoca, Coleman Hawkins: la sua versione della canzone "Body and soul" incisa nel 1939, uno dei brani più celebri di tutta la storia del jazz.

Coleman Hawkins, "Body and soul": è possibile osservare la trascrizione dell’assolo del sassofonista.

In Cover, Benny Goodman e altri musicisti della scena swing degli anni Trenta e Quaranta. Via Pagina Facebook @thebreman

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