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Dalle Marche agli USA: l’importanza dell’artigianato Made in Italy secondo Federico Serrani

06 settembre 2019
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Stefania Quintajè è un'imprenditrice marchigiana che ha unito il lavoro di pelletteria degli artigiani del territorio a un design elegante e colori accattivanti per realizzare una collezione di borse per macchine fotografiche e pc. Federico Serrani è il nome del bisnonno, ciabattino come nella miglior tradizione delle Marche, e fervido amante della letteratura: con l’obiettivo di riavvicinarsi alle proprie radici e di realizzare un prodotto che fosse in grado di coniugare bellezza e funzionalità, Quintajè, avvocato e consulente legale, ha lanciato il suo marchio e i primi modelli nel 2015, ispirata dal marito fotografo di moda.

Oggi i prodotti, grazie all’e-commerce, vengono venduti in Europa e negli Stati Uniti e sono arrivati – tra le poche aziende tutte italiane, insieme al più noto marchio Manfrotto – anche nei negozi di B&H a New York, un punto di riferimento per professionisti e appassionati di fotografia. I clienti che più apprezzano Federico Serrani sono proprio gli stranieri affascinati dal tanto decantato Made in Italy, un’etichetta oggi abusata, che rischia spesso di perdere il proprio valore e che non basta per garantire qualità, ma che nel caso dell’azienda marchigiana sembra mantenere la promessa.

Come nasce il nome della sua azienda?
Federico Serrani era il mio bisnonno materno, che purtroppo, per ragioni anagrafiche, non ho avuto modo di conoscere. Era letteralmente un gentiluomo di altri tempi, ma allo stesso tempo umile e soprattutto un lavoratore alacre, caratteristica degli artigiani di un tempo – e forse proprio dei marchigiani, che sanno essere efficienti e silenziosi, nella loro operosità.

In cosa l'ha ispirata?
Federico era un ciabattino piuttosto anomalo: investiva parte dei suoi risparmi nell'acquisto di classici della letteratura: li leggeva nei ritagli di tempo e finiva per declamarli nella sua bottega, mettendo insieme un ottimo prodotto e un po' di filosofia. Ha insegnato il mestiere a moltissimi, ma la sua bottega è sparita con lui: ha avuto infatti tre figlie femmine, che hanno anche lavorato nelle fabbriche della zona senza mai divenire esse stesse artigiane indipendenti, ma sposandone alcuni. Nella zona da cui provengo, tra Montegranaro e Monte San Giusto, nel pieno distretto calzaturiero marchigiano, più o meno ogni nucleo familiare lavora o ha lavorato nel settore dei pellami e delle calzature o delle borse. E dalle botteghe sotto casa si è passati alle grandi fabbriche degli anni del boom economico. È normale che le generazioni successive abbiano fatto anche altro nella vita. Del resto l'istruzione era vista come una conquista e io stessa appartengo alla generazione del primo figlio laureato all'interno della famiglia.

Quando nasce la decisione di abbracciare il settore e di fondare l'azienda?
Diciamo che i geni sono quelli e che non mi sento lontana dal mondo da cui provengono i miei avi, anche se l'ho fisicamente lasciato molti anni fa, prima per studiare a Roma e all'estero e poi per lavorare prima a Milano e poi in Svizzera come avvocato e consulente legale, specializzandomi nelle nuove tecnologie. Volevo ridare qualcosa indietro, considerando che mi sento molto fortunata a essere stata incoraggiata a prendere la mia strada. Continuo a fare l'avvocato, ma parte del mio tempo l’ho dedicato a progettare e mettere insieme i pezzi dell’azienda, fondata nel 2015, che oggi costituiscono una realtà. Ho imparato molto dagli americani con cui ho lavorato per tanti anni: la capacità di valorizzarsi, l'importanza di essere efficaci nella squadra che si crea, la chiarezza del messaggio e del prodotto. Ma solo nel made in Italy ho trovato queste caratteristiche così uniche, che nessun altro Paese potrà mai raggiungere in questo ambito specifico, che va aiutato e valorizzato. La mentalità deve essere aperta ed internazionale, ma il prodotto deve essere elegante, raffinato, di qualità. Italiano.

Il prodotto è interamente italiano quindi? E la clientela? Quando conta oggi secondo lei potersi dire made in Italy?
Mi avvalgo di artigiani della zona e il prodotto è totalmente fatto in Italia, controlliamo tutta la filiera. Come spesso avviene per le nuove realtà, i social ci hanno dato uno spazio che in passato non avremmo potuto ottenere in maniera così immediata, diretta e indipendente. I clienti che ci notano provengono da varie parti del mondo e di fatto sono oggi in maggioranza stranieri: provengono dagli Stati Uniti, dove siamo sbarcati grazie al tempio mondiale della fotografia, B&H, da Francia e Svizzera. Il punto è proprio questo: non avevano mai visto un prodotto che fosse sia bello che tecnicamente adeguato. Il termine "made in Italy" è stato credo troppo usato e abusato dal mercato. Non credo che ogni prodotto fatto in Italia possa essere in automatico sinonimo di accuratezza e bellezza. Credo però che nasciamo con il vantaggio territoriale e culturale giusto per poter valorizzare le fondamenta del nostro stile. Ma non abbiamo il diritto di abbassare la guardia sulla qualità, da noi si aspettano grandi cose, sempre. Produrre in Italia non deve essere la scusa per smettere di migliorarsi. Altrimenti il made in Italy perderà il suo valore distintivo nel mondo.

Che dimensioni ha oggi la Federico Serrani?
Siamo piccoli perché ci concentriamo su un prodotto di nicchia, che per le ragioni familiari già esposte conosco bene. Siamo partiti dalle borse per macchine fotografiche. Mio marito è un fotografo di moda professionista e non riusciva mai a trovare una borsa che fosse anche bella e non solo tecnicamente corretta, per macchine a volte costosissime. Io sono così: se una cosa non esiste bisogna trovare il modo di realizzarla. Abbiamo convinto designer, artigiani e distributori e avevamo ragione. Ora abbiamo un 80% di produzione dedicata al mondo femminile, quello che ci permette di essere anche molto creativi nel progettare i nostri prodotti; il restante è dedicato al maschile, dove esistevano già players interessanti a livello italiano e globale. La sfida successiva è stata accontentare anche un altro mondo, quello delle manager con il pc sempre in borsa. Non è assurdo essere perfettamente alla moda e portarsi dietro una brutta borsa per il proprio computer? Quello che abbiamo ideato è un modello che ho testato di persona in base alle mie esigenze, pratico, funzionale ma finalmente bello, che non debba nascondersi.

Quali sono i vostri prossimi obiettivi?
Mi piacerebbe investire ancora nella nostra piattaforma di e-commerce, già attiva con i nostri prodotti. Iniziare a valorizzare altre piccole realtà che possano produrre con noi oggetti belli e funzionali. Proporli come alternativa a quei grandi gruppi online che guardano sempre con sospetto alle realtà meno note, con piccoli numeri, che non hanno ancora raggiunto il grande pubblico. Certo, partiremo sempre dal mondo fotografico e tecnico, ma conta anche molto guardare a un più ampio progetto lifestyle che riesca a coinvolgere chi ama la fotografia e la utilizza come veicolo espressivo nella propria vita di tutti i giorni. E poi vorrei che si parlasse di più di fotografia con competenza. Invitare grandi nomi della fotografia a parlare al pubblico, dare a tutti la possibilità, anche solo per qualche ora, di confrontarsi con persone che hanno fatto della propria passione una esperienza di vita unica. È il momento di valorizzare le competenze, in mezzo al grande mare delle improvvisazioni, in ogni settore.

Quali sono state le difficoltà e quali sono le soddisfazioni?
Non credo sia un caso che gli italiani siano più diffidenti verso realtà come la mia. Siamo talmente disabituati a sognare, a guardare all'impresa come a una missione non solo per se stessi ma per la collettività, che ogni tentativo viene visto con sospetto. Dobbiamo reimparare la fiducia. Persino trovare artigiani disposti ad ascoltare il progetto può essere difficile. Ringrazierò' sempre chi ha creduto in noi in tempi non sospetti, dandoci la possibilità di cominciare a produrre cose del tutto nuove, da zero, fidandosi.

Essere donne nel mondo del lavoro e alla guida di un'azienda secondo lei fa ancora differenza oggi?
Mi fa sempre sorridere quando di istinto pensano che l'azienda sia di mio marito e non mia. Pensano che un uomo faccia più sul serio, che sia più preparato agli affari. Lo trovo abbastanza avvilente, ma per fortuna si tratta solo di un primo impatto. Continuo a essere certa che essere persone preparate sia sempre la chiave giusta per trovare il confronto corretto con qualsiasi interlocutore. E poi è giusto valorizzare l'idea stessa di imprenditoria femminile. Le ragazze hanno bisogno di sapere che queste cose si possono fare, che si può riuscire. Personalmente non sono mai stata una femminista urlata o "contro" qualcuno. Ho subito battutine scomode, le ho interiorizzate senza rabbia e ho ridato indietro opportunità e positività invece di livore. A uomini e donne. Ma la mia responsabilità oggi, con un ruolo più maturo e maggiore consapevolezza, sta nel mettere all'angolo e isolare ogni condotta sessista, ogni pregiudizio pericoloso io incontri sul mio cammino. Contribuire a creare un ambiente sano, competitivo ma anche collaborativo senza bassezze e battute da osteria. Non servono al business, e certo non servono alle nuove generazioni di donne competenti e coraggiose con cui mi confronto sempre di più. È questo il mondo in cui voglio vivere e creare impresa.

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