Tutta la vita di Andrea Mantegna era stata una sfida e la sua carriera artistica non era stata da meno. Ma eccolo lì, nel 1457, finalmente soddisfatto del suo lavoro, Martirio e trasporto del corpo decapitato di san Cristoforo. In particolare era la scena alla sua destra che lo riempiva d’orgoglio: il corpo del santo veniva trascinato via da due uomini ed era dipinto di scorcio, con le piante dei piedi rivolte verso lo spettatore. Nessuno nella storia dell’arte aveva mai dipinto una prospettiva così ardita. Era solo il preludio di una serie di illusioni prospettiche di cui sarebbe diventato maestro negli anni successivi e modello di riferimento per tutta la pittura rinascimentale.
“Di origini umilissime” questo è tutto ciò che si sa dell’infanzia di Andrea Mantegna prima che venisse adottato da Francesco Squarcione. Ce lo racconta il Vasari nella sua biografia. Il futuro pittore era un giovane pastore che non aveva alcun contatto con l’arte; il mecenate invece aveva una bottega a Padova che era simile a un orfanotrofio: pullulava dei figli che le famiglie non potevano più mantenere. Il suo compito era trasformarli in artisti.
Mantegna entrò in questo luogo che sembrava uscito da una fiaba: Squarcione era un grande collezionista d’arte e nei suoi studi si potevano trovare sculture, statue greche o romane, reperti archeologici come monete o vasi. Attorno a questo tesoro si muovevano decine di garzoni. Squarcione insegnava loro a copiare gli oggetti, ad acquisire rudimenti di prospettiva, di anatomia umana e di composizione. Poi, quando finalmente erano in grado di farlo, gli affidava delle commissioni per le quali non percepivano alcun compenso. Il maestro teneva i soldi; il pagamento dei figli adottivi erano il vitto e l’alloggio presso la bottega.
Mantegna iniziò così e ben presto scoprì che per domare la fiamma che gli ardeva dentro non era sufficiente fare ciò che facevano gli altri. Voleva di più, voleva osare. In quegli anni di formazione ebbe modo di studiare anche opere classiche, come il San Francesco in bronzo di Donatello esposto nella Basilica di Sant’Antonio a Padova. La voglia di arrivare a quel livello di grandiosità lo convinse a fare un passo decisamente coraggioso: nel 1448 decise non solo di lasciare la bottega di Squarcione ma, con un impeto di orgoglio, fece causa al maestro reo di aver sfruttato il suo lavoro. Gli chiese un risarcimento in denaro per ogni opera che aveva eseguito per suo conto. Era solo il primo tassello di una storia in cui il carattere del pittore venne fuori con prepotenza.
Il secondo episodio arrivò pochi mesi dopo l’uscita dalla bottega di Squarcione. Mantegna si mise in proprio e le commissioni non tardarono ad arrivare. L’unico problema era la sua giovane età: a 17 anni non poteva firmare contratti. Fu suo fratello maggiore Tommaso, che a Padova aveva fatto fortuna come sarto, a diventare suo tutore e a firmare per lui.
Il giovane artista fu chiamato a partecipare ai lavori della Cappella Ovetari, dove si trovò coinvolto insieme a un gruppo di talenti nella ricostruzione di una sezione della Chiesa degli Eremitani di Padova. Qui incontrò Nicolò di Pietro di Giovanni, detto Pizzolo. Aveva dieci anni più di lui e molta più esperienza. Nel giro di qualche mese le antipatie tra i due crebbero a dismisura: Mantegna invadeva con costanza il campo del collega al punto che Pizzolo, ormai sfinito, lo citò in giudizio e Mantegna decise di abbandonare il cantiere.
Stizzito si traferì a Ferrara, dove per un breve periodo si mise al servizio di Leonello d’Este ed ebbe l’occasione di vedere i dipinti di Piero della Francesca e degli autori fiamminghi che il marchese collezionava. Nel frattempo nella Cappella Ovetari i lavori avevano subito una battuta d’arresto quasi definitiva. Dapprima per via dei fondi che erano terminati e poi per la tragica scomparsa di Nicolò Pizzolo. A questo punto i committenti avevano solo una persona a cui rivolgersi: Andrea Mantegna. Il giovane artista rientrò in cantiere con i lavori integralmente affidati a lui nel 1453.
Finalmente libero di dar sfogo alle sue capacità, Mantegna si confrontò con il completamento del registro inferiore delle Storie di San Cristoforo e realizzò un’opera senza precedenti. San Cristoforo è descritto dalla leggenda come un gigante dall’aspetto animalesco, e Mantegna decise di rappresentarlo rifacendosi a questo canone nelle due scene unificate che diverranno le più ambiziose del ciclo. Specialmente la scena di destra, dove due uomini trascinano via il corpo del gigante servendosi di una corda. La prospettiva proponeva uno scorcio inusuale, con le piante dei piedi rivolte verso lo spettatore e il corpo visto di taglio. Colpì anche la capacità di Mantegna di creare una loggia in maniera illusionistica, facendo credere che una nicchia si aprisse nella parete.
Ormai Mantegna era un artista che non avrebbe faticato a ricevere altre commissioni e che avrebbe continuato a sperimentare con prospettive audaci per il resto della vita. I due esempi maggiori ci arrivano attraverso i suoi lavori più conosciuti.
Il primo è una delle imprese decorative più complesse a cui Mantegna si sottopose durante la sua carriera: la Camera degli sposi nel castello di San Giorgio a Mantova. L’ambiente era molto piccolo e occupava il primo piano della torre nord orientale, la camera era quella che Ludovico Gonzaga utilizzava come sala delle udienze. Attraverso la sua decorazione, Mantegna cercò di liberare questa piccola stanza dalle imposizioni dettate dai suoi limiti fisici. Con un incredibile virtuosismo illusionistico dipinse un’apertura circolare sul soffitto circondata da un finto zoccolo di marmo su cui poggiavano pilastri, tendaggi e affreschi che celebravano la famiglia Gonzaga. Colpisce soprattutto l’attenzione architettonica di Mantegna che fonde gli elementi reali, come le cornici delle porte e i peducci, a un vero e proprio inganno frutto del suo genio.
A sconvolgere però è il famoso oculo centrale, che rimanda inevitabilmente agli edifici classici romani come il Pantheon. Mantegna lo rappresenta dando la sensazione che nel soffitto sia presente una cupola sormontata da un cielo azzurro abitato da personaggi che guardano in basso. Si stagliano sul cielo putti, animali come un bellissimo pavone, ma anche oggetti come la tinozza di legno con la pianta. Si tratta di uno degli esempi più riusciti di scorcio dal basso. Ancora una volta Mantegna con un colpo da maestro sconvolse la prospettiva trasformando l’osservatore in osservato.
L’artista riuscì nuovamente a sorprendere tutti perfino dopo la sua morte, con quello che è il suo lavoro più famoso, conservato oggi alla Pinacoteca di Brera a Milano. Parliamo del Cristo morto. Quest’opera fu trovata da suo figlio Ludovico nel 1506 tra i dipinti rimasti in studio dopo la scomparsa del pittore.
Siamo ancora di fronte a una prospettiva inedita, unica per quel periodo, dal carattere spiccatamente sperimentale. Cristo è visto frontalmente, con un angolo leggermente rialzato. Un po’ come nell’affresco di San Cristoforo, il punto di vista è ai piedi del soggetto, con la linea di fuga dello sguardo che punta verso il volto di Cristo e dei personaggi accanto a lui, ovvero la Vergine Maria, San Giovanni e Maria Maddalena.
Mantegna crea pathos giocando con la luce che arriva da destra e fa risaltare le pieghe del corpo e del sudario, creando un forte contrasto con le ombre. Infine, e questo è il colpo di genio, nonostante il gioco ardito della prospettiva, Mantegna decide di non mantenere proporzioni reali. Questo punto di vista avrebbe infatti richiesto che il soggetto avesse la testa molto più piccola e i piedi, in primo piano, più grandi, ma l’artista sceglie di sacrificare la veridicità per non scadere in un risultato grottesco.
In questo modo il suo punto di vista diviene ancora più esclusivo, unico. Nessuno prima di lui aveva mai sperimentato in questa situazione. La sua è una prospettiva nuova, uno sguardo diverso che ha cambiato per sempre il Rinascimento e la storia dell’arte.
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