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Tim Duncan, il campione NBA più forte di un uragano

04 agosto 2022

Partiamo dalla fine: il 18 dicembre 2016 i San Antonio Spurs hanno issato nel loro palazzetto il numero 21 di Tim Duncancelebrando il ritiro della sua maglia. Per lui la squadra texana della NBA ha così seguito la tradizione sportiva che onora i giocatori particolarmente rilevanti della storia di un club rendendo impossibile vestire in futuro il loro stesso numero. Non poteva essere altrimenti, per la migliore ala grande della storia della pallacanestro: un atleta formidabile capace di vincere cinque titoli NBA, meritandosi un posto nella Hall of Fame del Basket mondiale. Qualche mese prima di quel 18 dicembre, il quarantenne Duncan aveva annunciato il suo ritiro. Era la parola “fine” su una straordinaria carriera che non sarebbe mai iniziata, se una sliding door non avesse stravolto la vita del giovane Tim nel 1989.

Due uragani, uno fuori e uno dentro

Il cielo, come affermato da Duncan stesso in un documentario sulle sue origini, a volte ha modi bizzarri per farti capire qual è la strada da seguire. Lui, in prima persona, forse non l’avrebbe mai trovata se nel settembre del 1989 il violentissimo uragano Hugo non si fosse abbattuto sulle Isole Vergini, inclusa quella di Saint Croix dove viveva la famiglia Duncan. Un evento tragico che l’ex cestista di San Antonio ha così raccontato in un’accorata lettera a The Players’ Tribune:

“Hugo ha colpito di notte. La prima cosa che ricordo è un forte boato fuori dalla nostra casa. Mia madre e mia sorella sono entrate nella mia camera da letto di corsa e mi hanno portato per mano in un’altra stanza. Abbiamo passato il resto della notte seduti in un piccolo bagno, con gli occhi sbarrati […] Di tanto in tanto sbirciavo in corridoio mio padre, che guardava il nostro soffitto. Una delle travi aveva una crepa, e la crepa si è lentamente allargata per tutta la notte. Penso che mio padre stesse pregando. Il nostro tetto ha resistito, ma altri non sono stati così fortunati […] il nostro quartiere è stato distrutto”.

A farne le spese è stata anche la piscina di Christiansted, un luogo speciale per il tredicenne Timmy. Al tempo, infatti, Duncan era considerato una giovane promessa del nuoto a stelle e strisce, tanto da essere già parte della squadra USA per i Giochi di Barcellona 1992. Eccelleva nei 400 metri stile libero e sognava di coronare anche lui il sogno olimpico, proprio come aveva fatto la sorella Tricia, in gara 4 anni prima a Seul nei 100 e nei 200 dorso. Ma Hugo scombinò i piani e qualche mese dopo un altro uragano, stavolta emotivo, colpì Tim.

Il 24 aprile 1990, alla vigilia del quattordicesimo compleanno di Tim, la sua amata mamma Ione perse la battaglia contro un brutto male. Per lui si aprì un vuoto enorme, a distanza di poco tempo si vide privato della possibilità di praticare lo sport per il quale aveva un evidente talento naturale e della persona che più di tutti lo aveva spinto a coltivarlo. Mamma Ione lo aveva sempre motivato a farlo ripetendogli un mantra: “Good, better, best. Never let it rest. Until your good is better, and your better is best” (Buono, ottimo, migliore. Non lasciarlo mai riposare. Finché il tuo buono non sarà ottimo, e il tuo ottimo non sarà il migliore”). Tim non lo dimenticherà mai, inscalfibile nonostante il duro colpo subito.

Dopo il grave lutto, la figlia maggiore dei Duncan, Cheryl, tornò a vivere in famiglia. Tra i suoi obiettivi c’era ovviamente aiutare il piccolo di casa a distrarsi. Così gli regalò un canestro e un pallone da basket, sport che a lui in realtà non era mai particolarmente interessato. A istruirlo e a farlo appassionare ci pensò, però, il marito di Cheryl, Ricky Lowery, ex playmaker della Capital University, che in campo indossava – guarda caso – la canotta numero 21. Incredibilmente, sotto la guida del cognato-allenatore, in davvero poco tempo Tim diventò un ottimo giocatore di pallacanestro. Inizia così il secondo capitolo di una storia da sala cinematografica.

La scalata di Tim Duncan al tetto del mondo

Nell’estate del ‘92 alcuni giocatori della NBA arrivarono a Saint Croix per una partitella promozionale. Per quell’esibizione venne permesso anche ad alcuni ragazzi del posto di scendere in campo. Il sedicenne Tim era tra i fortunati, e a lui toccò addirittura l’onere di marcare una futura stella della NBA, Alonzo Mourning. Lo fece talmente bene che un altro dei professionisti in campo, Chris King, a fine partita chiamò il suo ex allenatore del college per consigliargli quel ragazzone caraibico. Dave Odom, dopo essersi informato, decise di recarsi personalmente sull’isola per capire se valesse la pena di prendere sul serio quella dritta. Non ebbe dubbi: un anno dopo, Tim diventò uno studente-atleta di Wake Forest.

Il suo ingresso in NCAA, la lega universitaria nazionale di pallacanestro, avvenne in punta di piedi, ma negli anni a seguire l’impatto di Duncan fu devastante. I suoi numeri da capogiro attirarono ben presto i talent scout di molte squadre della NBA, che si sfregavano le mani all’idea di metterlo sotto contratto una volta salito “al piano di sopra”, tra i professionisti. Tim, però, li costrinse ad aspettare. A differenza di tanti coetanei, non si faceva sedurre dalle sirene del successo. Più di tutto per lui contava la promessa di laurearsi fatta a mamma Ione. Solo dopo aver concluso gli studi in Psicologia, nel 1997, si concesse al grande salto.

Il resto è storia: premio come matricola dell’anno nella stagione 1997-98; titolo NBA e MVP delle Finali al secondo anno, unico di sempre a riuscirci; primo giocatore dell’era moderna ad aver vinto il titolo in tre decenni diversi, contandone ben 5 a fine carriera, spalmati tra il 1999 e il 2014. Traguardi che gli sono valsi encomi ed elogi a iosa. Del resto, raramente si vedrà su un campo da basket un giocatore più completo di Tim Duncan, in grado di comprendere e dominare il gioco come lui, dotato di ottimo tempismo in difesa ed efficace essenzialità in attacco. Ma soprattutto in grado di prendere per mano la squadra, emanare carisma ed esercitare la leadership senza cedere alla presunzione. Questo è stato Tim Duncan, protagonista di una carriera incredibile.

Una carriera che, come detto, si è ufficialmente chiusa il 18 dicembre del 2016 con il numero 21 – scelto in onore di chi ha fatto sbocciare l’amore per il basket – appeso al soffitto dell’AT&T Center di San Antonio. Riprendendo la filastrocca con cui sua madre lo motivava da piccolo, Duncan da buono è diventato ottimo, e da ottimo il migliore. Ora, dopo 19 lunghe stagioni disputate in maglia Spurs e ben 26.496 punti messi a segno, il suo talento può finalmente riposare, mentre mamma Ione riposa in pace, sicuramente orgogliosa di quello che il piccolo Tim è diventato.

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