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Il bias cognitivo della perdita che ci impone di non sprecare occasioni

22 maggio 2022

“L’importante non è vincere, ma partecipare” è da secoli uno dei motti più usati. Eppure l'aforisma comunemente attribuito a Pierre de Coubertin (ma in realtà pronunciato da Ethelbert Talbot per la prima volta), in un certo senso, va contro la natura dell’uomo. È scientificamente provato, infatti, che nel nostro DNA ci sia iscritto il rifiuto a perdere. Un retaggio antichissimo che ha dato vita a quella che in psicologia si definisce “avversione alla perdita”: un bias cognitivo - cioè un errore di percezione della mente - che ci porta a dare più peso alle privazioni che ai successi.

Come spiegato da Amos Tversky e Daniel Kahneman nei loro Fondamenti di misurazione, se dovessimo smarrire il nostro portafoglio con all’interno 100 euro e nel medesimo giorno vincere quella stessa cifra con una scommessa, pur riconoscendo razionalmente di aver chiuso la giornata in pari, il dolore per la perdita subita sarebbe due volte più intenso rispetto alla gioia per la vittoria. Può sembrare un comportamento illogico, invece non lo è affatto e ha delle origini molto lontane, quando l’uomo viveva ancora nelle caverne.

Le radici dell'avversione alla perdita

Prima ancora di inventare le tecniche di coltivazione, l’essere umano era un animale fondamentalmente carnivoro, che viveva grazie alla caccia e ai frutti che la terra produceva spontaneamente. “Incertezza” era senza dubbio la parola chiave della sua vita. Dobbiamo quindi pensare a una quotidianità molto diversa dalla nostra, in cui il dolore era dietro l’angolo e si pensava a sopravvivere. Ogni piccola perdita in termini di vite o cibarie aveva spesso grandi ripercussioni e per questo andava assolutamente evitata.

Come riportato da Michael Shermer in The Mind of the Market: compassionate apes, competitive humans and lessons from evolutionary economics, questa paura è rimasta iscritta nel nostro DNA e condiziona ancora molte delle nostre scelte. La riprova è in un esperimento condotto nel 2006 sulle lontane cugine dell’uomo, le scimmie, che hanno mostrato di saper usare il denaro e possedere una certa sensibilità nei confronti delle perdite. Shermer racconta che dei ricercatori hanno dato ai primati 12 gettoni con cui poter acquistare acini di uva o fettine di mela. È stato infine dato loro il 50% di possibilità di ottenere un bonus e il 50% di subire una perdita: le reazioni delle scimmie cappuccine davanti alle privazioni erano due volte più intense rispetto a quelle legate ai guadagni. Non si è trattata certo di una coincidenza. Dal momento che gli esseri umani condividono una grossa parte del patrimonio genetico con le scimmie, probabilmente l’avversione alla perdita è un bias cognitivo ereditato da questo nostro antenato.

L’essere umano tra logica e irrazionalità

Fin dall’antichità l’uomo è stato riconosciuto come animale “superiore”, in quanto essere dotato di ragione, e questa idea ha influenzato anche il pensiero successivo. La teoria dell’Utilità Attesa, elaborata nel 1947 dagli economisti John von Neumann e Oskar Morgenstern, ha rappresentato per lungo tempo il modello a cui tutte le dottrine in campo decisionale si ispiravano. Secondo questa teoria ogni individuo agisce seguendo dei modelli comportamentali predeterminati anche in condizioni di incertezza. Ma davvero l’uomo si comporta sempre così razionalmente?

Messa di fronte a una scelta delicata e decisiva, la mente umana tende a farsi condizionare da alcuni fattori: in primis il timore di prendere decisioni sbagliate. La paura ha origine in un’area del cervello chiamata amigdala, che si attiva davanti alla vista di un pericolo (come un ragno velenoso o un vicolo cieco), ma anche dinanzi a una situazione solo potenzialmente rischiosa, come una scelta che può influenzare il futuro: ogni decisione presa implica un guadagno, a fronte di una perdita. L’amigdala in questo caso si scontra con il sistema dopaminergico in una lotta emozionale: se la prima si attiva come se fosse una sirena d’allarme quando il cervello visualizza il dolore per le possibili “perdite”, la dopamina entra in circolo di fronte all’ipotesi di una futura “vincita”.

In una situazione simile quindi si passa dall’essere timorosi all’essere euforici (e viceversa) in pochissimi secondi. Alla fine, però, la paura ha quasi sempre la meglio sulla temerarietà: per natura, l'essere umano non ama vivere nell’incertezza e ancor meno soffrire, per questo spesso si accontenta di sopravvivere piuttosto che vivere al massimo delle possibilità.

La Teoria del Prospetto e l'importanza del contesto

Per tutte queste ragioni, nel 1979 gli psicologi israeliani Amos Tversky e Daniel Kahneman hanno elaborato un nuovo modello che spiegherebbe anche quegli atteggiamenti umani apparentemente illogici. Lo studio prende il nome di “Teoria del Prospetto”, in cui il concetto di avversione alla perdita rappresenta un punto nodale.

Nel loro Asian Disease Problem, gli scienziati hanno dimostrato che il contesto può influenzare i meccanismi decisionali. Per farlo hanno usato il “problema della malattia asiatica”. L’esperimento si basava sull’ipotesi che 600 persone potessero ammalarsi e rischiare la propria vita. Spettava quindi ai partecipanti prendere la situazione in mano e scegliere la soluzione migliore tra due programmi. Il primo gruppo doveva decidere tra la possibilità di salvare sicuramente 200 persone (piano A) e il programma B secondo cui esisteva un terzo di probabilità di salvare tutti. Le opzioni proposte al secondo gruppo, invece, avevano un tono narrativo decisamente più pessimistico, visto che la scelta era tra veder morire 400 pazienti (programma C), e garantirsi un terzo di probabilità che nessuno perisse (piano D). Anche se le quattro soluzioni proposte erano perfettamente equivalenti, l’atteggiamento dei partecipanti non lo è stato. Il gruppo con le opzioni più “ottimistiche” ha scelto la via della certezza, votando nel 72% dei casi il programma A, mentre il secondo raggruppamento ha optato per la soluzione di tipo probabilistico (programma D), allontanando dalla mente la possibilità di una perdita.

Il modo di esporre una questione non è l’unico fattore condizionante per la scelta: anche il contesto socio-economico e culturale in cui l’uomo vive può condurlo ad assumere un atteggiamento diverso. Secondo uno studio del professore Ena Inesi della London School of Economics, la propensione al rischio è direttamente proporzionale alla disponibilità economica di un soggetto. Questo accade perché le perdite appaiono meno pesanti, facendo sembrare anche il rischio meno pericoloso. È altrettanto vero che le società collettiviste sono meno sensibili alla perdita rispetto a quelle individualiste, proprio perché possono contare sul sostegno delle persone care e superare più facilmente il dolore e la delusione per una sconfitta.

I tanti campi di applicazione dell’avversione alla perdita

Grazie a questa scoperta Kahneman, è riuscito ad aggiudicarsi il Nobel per l’Economia nel 2002. Una gioia che non ha potuto condividere con Amos Tversky, poiché lo storico collega era venuto a mancare qualche anno prima. Il loro segno, però, ha continuato a dare i suoi frutti. In molteplici applicazioni. Infatti, la teoria del prospetto e l’avversione alla perdita trovano tuttora grande applicazione in campo economico e finanziario.

Ad esempio, Incorporating Reference Price Effects into a Theory of Consumer Choice, studio del 1992 condotto dal Daniel Putler, ha dimostrato come questo fenomeno sia strettamente collegato con la sensibilità degli individui al prezzo. Il suo team di ricercatori ha notato che quando tra il 1981 e 1983 si era verificato un aumento del 10% sul prezzo delle uova, la domanda era diminuita del 7,8%. A fronte di una diminuzione dei prezzi, invece, la richiesta di uova non era aumentata nello stesso modo, toccando a malapena il 3,3%.

L’avversione alla perdita è spesso accompagnata anche da un altro bias, chiamato in economia comportamentale "effetto dotazione". Secondo questa distorsione cognitiva, il solo possesso di un bene costituisce in ognuno di noi un valido motivo per aumentarne il valore. Questo fenomeno condiziona l’esito di diverse compra-vendite, soprattutto in campo immobiliare: il proprietario di una casa si aspetta sempre di vendere la propria abitazione a un prezzo superiore rispetto al reale valore di mercato, per il solo fatto che quell'immobile è il suo immobile. Una tendenza a sovrastimare la propria abitazione, che spesso però preclude la possibilità di portare a termine l'affare.

Giocando sul timore di perdere un’occasione, sempre più aziende sviluppano campagne promozionali innovative sfruttando il neuromarketing, termine coniato da Ale Smidts nel 2002. Questa disciplina applica infatti le scoperte delle neuroscienze per capire i meccanismi alla base dell’atteggiamento dei consumatori e orientare le loro scelte d’acquisto. Un approccio che ha cambiato decisamente i processi legati alle attività di ideazione, determinazione del prezzo, della promozione e distribuzione di idee, beni e servizi, riuscendo a individuare e soddisfare i bisogni del cliente in maniera sempre più efficace.

Superare i bias per realizzare i propri sogni

L'avversione alla perdita può quindi proteggerci dai pericoli e dal compiere scelte azzardate. Ma questa distorsione cognitiva potrebbe anche diventare un ostacolo per la realizzazione di sogni. I bias cognitivi, infatti, non rappresentano qualcosa di negativo di per sé, ma è davvero importante imparare a manovrarli con cura.

Per fortuna, adesso non viviamo più nelle grotte con il timore costante di rimanere senza cibo o di essere divorati da un predatore. Immaginare il proprio futuro, senza temere sempre di correre troppi rischi, è il modo migliore per programmare un'esistenza soddisfacente. Del resto, come diceva il famoso drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, “chi combatte rischia di perdere, ma chi non lo fa ha già perso”.

Credits:

Cover: Cover: Artificial intelligence, photo by MF3d, distributed under the Getty Images license via Getty Images

Immagine interna 1: Michael Shermer. Image by Gage Skidmore, distributed under a CC= license via Wikimedia.

Immagine interna 2: Daniel Kahneman. Image by nrkbeta, distributed under a CC-BY-SA-2.0 license via Wikimedia.

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