Letture
8 minuti
Food & Wine
Food & Wine

Una distilleria Toscana dà nuova vita al Chianti

23 luglio 2020
autore:

Si chiama Winestillery ed è il frutto delle sperimentazioni di una famiglia che è nel mondo del vino da due generazioni e che rinnova la sua passione ogni giorno tra i vigneti del Chianti Classico in Toscana. Prima e unica “Vinstilleria” al mondo, si tratta di una Winery e di una Distillery che sono state fuse insieme per una nuova chiave di lettura di un prodotto estremamente tradizionale, il vino. Nascono così spirits – due gin, un London Dry e un Old Tom, una vodka e un vermouth – che restano legati indissolubilmente al territorio da cui provengono e che si inseriscono  in un nuovo trend, quello dei distillatori artigianali, che sta prendendo piede anche in Italia, con un crescente interesse da parte dei consumatori e una presenza crescente di alambicchi nel nostro Paese.

“Siamo in una fase di nascita e crescita dell’interesse, legato a un rinnovato interesse in generale per tutte quelle che sono le produzioni locali,” racconta Enrico Chioccioli Altadonna, mastro distillatore che ha pensato di lanciare l’azienda di famiglia in questa nuova impresa, insieme al fratello Niccolò e al padre Stefano Chioccioli. “Il trend della distillazione artigianale è in atto da almeno cinque anni in modo serio e tiene un ritmo interessante fuori dal nostro territorio, soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in generale in Europa. In Italia da questo punto di vista siamo un po’ in ritardo, ma potrebbe essere l’opportunità per approcciarsi a questo mondo grazie anche ad una maggior maturità del consumatore”.

Com’è organizzata Winestillety?

Per ora è ancora un’azienda molto piccola, a conduzione familiare, nata come costola produttiva della nostra realtà aziendale. L’idea di Winestillery, con il senno di poi non così folle, risale a quasi 6 anni fa, e nasce da una mia personale curiosità: pur essendo nato nel mondo del vino e della fermentazione spontanea, che ho studiato a casa, il mondo della distillazione mi ha sempre affascinato. Inizialmente ho fatto studi però completamente diversi – sono avvocato, anche se ormai mi sono cancellato dall’albo – e dopo la laurea in giurisprudenza a Milano sono volato negli Stati Uniti per fare un’esperienza presso la prima distilleria riaperta a New York a seguito del proibizionismo, la Kings County Distillery. Per completare la mia formazione e diventare mastro distillatore sono anche stato alla scuola enologica di Conegliano. Poiché l’idea era di legarmi al mondo del vino e partire da una materia prima che non conoscevo in distillazione, ho deciso di andare all’università di Bordeaux per un corso di enologia e poi successivamente sono andato in Cognac per un’esperienza in tre distillerie differenti.

Come mai hai scelto di formarti così tanto, e quali sono stati i passi successivi per arrivare all’effettiva produzione?

Non mi piace arrivare impreparato e penso che in nessun lavoro ci si possaimprovvisare, soprattutto in una materia così affascinante, dotata tanto della componente romantica del rame e della trasformazione alchemica, quanto dell’elemento tecnico-scientifico. Questo si è tradotto di riflesso nello studio dell’alambicco. La progettazione e la realizzazione del nostro alambicco Bacco – nome che ci sembrava quanto mai opportuno – realizzato da Frilli ha richiesto diverso tempo. Il primo contatto con l’azienda l’ho avuto nel 2015, e Bacco è arrivato in distilleria nella seconda parte del 2017. La prima distillazione in presenza dell’agenzia delle dogane per il controllo e la licenza l’abbiamo fatta nel 2018, mentre la prima distillazione ufficiale in autonomo è avvenuta il 3 gennaio 2019. 

Come vi siete proposti sul mercato, avendo alle spalle un’azienda di famiglia già conosciuta?

Come tutti i progetti in fase di nascita, l’ho vissuto con grande trasporto. Dopo la prima distillazione ufficiale abbiamo fatto la prima presentazione di Winestillery in occasione della Florence Cocktail Week nel maggio 2019, e siamo sul mercato da quel periodo. Volevamo mettere lì le basi: penso sia un desiderio spontaneo e naturale di tutti partire ed essere presenti sul territorio di casa, nel nostro caso Firenze e la Toscana. Il secondo obiettivo è stato approdare sulla distribuzione nazionale, che abbiamo raggiunto grazie a una partnership con Fine Spirits, di cui sono molto fiero. Poi abbiamo attivato alcuni mercati esteri, in parte arrivati da contatti e canali del mondo del vino, mentre altri sono stati creati ex novo, in particolare nel mercato Svizzero, norvegese, e belga. Speriamo in futuro di arrivare negli Stati Uniti.

Voi distillatori italiani, essendo ancora pochi, riuscite a fare rete?

La sensazione che ho avuto a contatto con il mondo degli spirits artigianali e ricercati è quella di voler fare comunità, un desiderio forse legato al fatto che condividiamo il dato anagrafico, tutti intorno ai trent’anni. È importante la relazione anche con il mondo della miscelazione e del bartending, i vettori forse più importanti dei prodotti artigianali nell’ambito degli spirits, perché hanno una capacità di capirne la qualità superiore o comunque l’identità più forte; e anche in Toscana ci sono produttori e marchi di gin nati recentemente con cui sono in contatto. La scommessa nei prossimi anni è su quanto saremo capaci di fare davvero coorte, perché sicuramente più tempo passerà, più sarà necessario inquadrare il fenomeno con precisione superiore, andando a individuare quali sono le produzioni autentiche e le loro “filosofie”. A quel punto vedremo quali associazioni nasceranno di conseguenza, quali manifestazioni, e così via.

Voi avete già esperienza in ambito vinicolo di un turismo dedicato e volto alla scoperta dei prodotti degustati in loco. Quanto credi ci vorrà perché il fenomeno si estenda in Italia anche alle distillerie?

Credo che il fenomeno crescerà con l’apertura progressiva di nuove distillerie. Non è solo questione di domanda, ma anche di offerta: la domanda esiste, perché da sempre il territorio italiano è frequentato da turisti di tutto il mondo, che apprezzano non solo le bellezze artistiche e culturali ma anche quelle ambientali e le eccellenze agroalimentari e gastronomiche. Se saremo in grado di avere un’estensione di realtà produttive sul territorio, ci sarà sicuramente un crescente interesse a visitare queste realtà, è solo questione di tempo. Non ho un termometro preciso per quello che riguarda la nostra realtà, avendo rimandato l’apertura al pubblico in attesa che riprenda con un ritmo più regolare il turismo, ma non vedo nessun elemento ostativo: se funziona per il mondo del vino perché non dovrebbe funzionare per quello dei distillati, prodotti ugualmente di interesse?

Molti non producono gin e altri spirits ma curano tutto il procedimento di aromatizzazione, realizzando prodotti interessanti e variegati che valorizzano la biodiversità locale e vengono spesso proposti in edizioni limitate e stagionali. State anche voi lavorando in questo senso, per proporre collezioni esclusive e temporanee?

Dall’anno scorso abbiamo dato il via a un progetto ancora non ufficiale, in pre-release, per cui abbiamo selezionato venti tra i migliori bartender d’Italia. Questo progetto incorpora al suo interno tutte le limited ed exceptional release di Winestillery, stagionali stand alone – che possono cioè essere fatti una sola volta – oppure prodotti che possano diventare i nuovi classici della nostra collezione. Lo spirito di Winestillery, come accade in tante aziende artigianali, è quello di una continua sperimentazione di produzioni nuove per esplorare i limiti produttivi delle categorie tradizionali: periodicamente inventiamo nuovi prodotti a iniziale fruizione interna, e a breve ne faremo uscire un paio. Abbiamo deciso di chiamare questo progetto “Sinesthética”, unendo sinestesia ed etica, con l’idea di toccare i confini delle singole produzioni di categoria dei distillati e creare prodotti che possano stimolare un senso attraverso l’altro, il tutto con una visione etica produttiva precisa, nel rispetto delle materie prime e con l’assenza di prodotti correttivi, cuore del nostro manifesto produttivo “Grape to glass”.

Se dovessi definire in poche parole il distillato perfetto, come lo descriveresti?

Un distillato è perfetto quando riesce a incarnare l’espressione più pura del territorio ed è quindi legato in modo indissolubile al terroir, inteso alla francese: non solo un territorio fatto di suolo, clima e produzione, ma anche da uomo e tradizioni locali. Un elemento che se nel mondo del vino è tratteggiato con meno forza rispetto alle altre componenti, a mio avviso nel mondo della distillazione assume un ruolo differente e più forte, grazie alla componente di trasformazione legata all’alambicco e al rapporto che questo ha con il mastro distillatore, chiamato a interpretare il territorio.

Vuoi informazioni sulla nostra consulenza e sui nostri servizi?

Naviga il sito e vedi tutti i contenuti di tuo interesse