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Il “coraggio di ribellarsi alla mediocrità” è l’eredità più preziosa di Rita Levi Montalcini

20 luglio 2022

C’è una frase che è rimasta aggrappata alla memoria di Rita Levi Montalcini, la “signora delle scienze”, l’unica donna italiana ad aver mai vinto un Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia. Una frase che in due righe riassume perfettamente la grandiosità del suo personaggio. Ovvero: “Nella vita non bisogna mai rassegnarsi, arrendersi alla mediocrità, bensì uscire da quella zona grigia in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva, bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi”.

Perché questa frase è importante nel tracciare il suo ritratto? Perché Rita Levi Montalcini, prima ancora che una straordinaria scienziata, prima ancora che una mente brillante e una pioniera della scienza, è stata una coraggiosa ribelle. Lo ha dimostrato in alcuni momenti chiave della sua vita, quando avrebbe potuto scegliere il conformismo, la paura o la passività e invece con la sua determinazione ha proseguito per la strada più difficile, tracciando un percorso nuovo, mai battuto. “Minuta, passo svelto, schiena dritta, mento alto e gli occhi verdi che non avevano paura di nessuno”, questo è il ritratto suggerito dal suo collega - e altro Premio Nobel - Renato Dulbecco. Quella della Montalcini è proprio la storia di una donna che non aveva paura di nessuno.

Contro ogni convenzione sociale

Rita Levi Montalcini viene al mondo nel 1909, insieme alla gemella Paola, in una famiglia di origini ebraiche e in una casa abitata da scienza e arte. La madre Adele era infatti una pittrice, mentre il padre Adamo un ingegnere elettromeccanico e matematico. Si configura già una delle caratteristiche che segneranno la vita di Rita e dei suoi fratelli: l’amore per la scoperta. Paola diventerà un'artista, seguendo le orme materne, il fratello Gino un affermato architetto; mentre Rita passò l’adolescenza sognando di diventare una scrittrice. Al padre, tutto sommato, le aspirazioni delle figlie andavano bene e le iscrisse a un istituto femminile, sicuro però che non avrebbero continuato oltre gli studi. A cosa poteva servire studiare a una donna nei primi del '900, quando la strada della sua esistenza era già tracciata? Le sue ragazze sarebbero diventate bravi moglie e brave madri. Scienza e matematica erano affari da uomini.

Fu un triste evento a cambiare i piani: quando l’amata governante di casa Levi Montalcini, Giovanna, si ammalò, Rita e i suoi fratelli soffrirono molto. Erano molto affezionati a lei e perderla fu un dolore immenso. In una di quelle giornate maturò nella Montalcini l’idea di iscriversi alla facoltà di medicina.

Quello fu il primo momento chiave in cui il carattere di Rita Levi Montalcini, con la sua voglia di ribellarsi al conformismo, venne fuori con prepotenza. Suo padre si oppose alla decisione. D’altro canto l’istituto femminile non le aveva fornito le basi per sostenere l’esame e iniziare a frequentare l’università. La Montalcini però fu irremovibile. “Non te lo impedisco”, le disse il padre “ma ho molti dubbi sulla tua scelta”. La Montalcini invece non ne aveva nemmeno uno. Passò l’estate studiando matematica, latino e greco, superò a pieni voti l’esame da privatista e nel 1930 era una delle 7 donne su oltre 50 studenti seduti nell’anfiteatro dell’Istituto Anatomico dell’Università di Torino.

La Montalcini non era solo caparbia, era anche eccezionale. Entrò nelle grazie di un maestro della scienza, Giuseppe Levi, che diventò il suo mentore per tutta la vita. Cominciò a studiare il sistema nervoso insieme ad altri compagni universitari destinati a vincere due Premi Nobel, Salvatore Luria e il già citato Renato Dulbecco. Nel 1936 si laureò con il massimo dei voti. Un grande successo, solo il primo. Presto infatti avrebbe dovuto affrontare una difficoltà ben più grande del disaccordo paterno.

Contro gli ostacoli della Storia

Nel 1938 Rita Levi Montalcini iniziò a lavorare come assistente volontaria in una clinica dove si studiavano malattie nervose e mentali. Il suo internato durò pochissimo dal momento che il contesto storico e politico dell’epoca la costrinse a lasciare il posto di lavoro. Fu in questo tragico scenario che, nuovamente, la temerarietà della Montalcini venne fuori. Ancora una volta con sprezzo, dimostrando di non tollerare alcuna ingiustizia.

Seguì Giuseppe Levi in Belgio ma poi tornò a Torino nel 1940. A casa sua allestì un laboratorio nella stanza da letto, con strumenti, vetreria e reagenti chimici di fortuna. E fu proprio tra le mura di casa che iniziò gli studi sulla crescita del sistema nervoso. Si unì a lei anche il maestro Levi: la Montalcini raccontò con orgoglio per tutta la vita di essere stata la sua prima e unica assistente.

Rita e il suo laboratorio itinerante furono costretti a spostarsi spesso in quegli anni, fino a trovare rifugio a Firenze, dove lei e la sua famiglia si trasferirono sotto falso nome nel 1943. Nella città toscana la Montalcini ebbe la sua prima e unica esperienza da medico sul campo, quando si presentò volontaria presso la Croce Rossa che aveva allestito un ospedale per gestire l’epidemia di tifo in corso. Fu difficile, specialmente perché come testimoniò lei in futuro, Rita non era in grado di distaccarsi emotivamente dalle sofferenze dei pazienti, ma ancora una volta non scelse la strada più facile. Fece ciò che andava fatto, quello che il cuore le suggeriva fosse giusto fare.

Gli USA e il Nobel

Nel 1945 i Levi Montalcini tornarono a Torino. Finalmente la vita era tornata alla normalità, Rita avrebbe potuto trascorrerla insieme ai suoi cari, nella città dov’era cresciuta e dove aveva studiato. Veniva da un decennio di fughe e laboratori improvvisati. Riprese a lavorare presso il Centro per le ricerche sull’accrescimento e la senescenza degli organismi.

Due anni dopo le arrivò una proposta destinata a cambiarle la vita: il biologo Viktor Hamburger colpito dagli studi condotti dalla Montalcini e da Levi, la invitò alla Washington University per proseguire le ricerche, molto simili a quelle a cui lui stesso si dedicava da tempo. Le disse che sarebbe stato un periodo di sei mesi di studi e ricerche in un ambiente estremamente prestigioso e avanzato.

Ancora una volta la Montalcini tenne fede a quel suo mantra: “Uscire dalla zona grigia, dove tutto è abitudine”. Accettò e si preparò a una lunga traversata atlantica sulla nave polacca Sobieski. Insieme a lei c’era l’amico Renato Dulbecco, diretto al laboratorio di fisica di Bloomington. Raggiunta la terraferma i due si separarono e la Montalcini salì su un treno a New York che la portò a Saint Louis. Era sola, dall’altra parte del mondo, ma non aveva paura.

Quei sei mesi sarebbero diventati trent’anni. A parte alcune brevi parentesi, rimase negli USA fino al 1977. Fu proprio negli Stati Uniti che, assieme al collega Stanley Cohen, la Montalcini scoprì il nerve growth factor, il fattore di accrescimento del sistema nervoso che nel 1986 le valse il Nobel. Si trattava di una proteina con un ruolo essenziale nella crescita e nella differenziazione delle cellule nervose sensoriali. Una ricerca che si rivelò fondamentale per la comprensione di malattie come il Parkinson, l’Alzheimer e il cancro. Proprio quest’ultima era la malattia che si era portata via la governante quando lei aveva vent’anni. La Montalcini aveva impiegato una vita, ma era riuscita a mantenere la promessa che si era fatta.

Passo gli anni successivi facendo avanti e indietro tra gli USA e l’Italia, coprendo le posizioni più importanti presso il Centro di Ricerche di Neurobiologia a Roma e dirigendo il Laboratorio di Biologia Cellulare dal 1969 al 1979 e fondando l’Ebri, il Centro Europeo per la Ricerca sul Cervello. Ha continuato a studiare e a divulgare scienza fino al 2012, quando si è spenta a 103 anni. Nonostante fosse ormai quasi totalmente cieca per colpa della maculopatia che le aveva colpito gli occhi, continuò ad alzarsi ogni giorno alle 4 del mattino, a leggere articoli grazie a un ingegnoso sistema di lenti d’ingrandimento e a presentarsi all’Ebri. Una donna senza paura, non temeva nemmeno i segni del tempo. Al compimento dei cento anni disse: "Ho perso un po’ la vista, molto l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent’anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente”.


Credits

Cover: Rita Levi Montalcini - 30 settembre 2009, Università di Pavia. Distributed under the CC BY-NC-SA 2.0 license on Flickr

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