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Pasolini vs Bertolucci: il derby tra le troupe di due grandi film italiani

26 aprile 2022

Quel 16 marzo 1975 fu un giorno molto amaro per Pier Paolo Pasolini, che nei mesi successivi tenne il massimo riserbo su come andarono le cose durante quella partita di calcio. Era una domenica mattina, alle nove in punto. Sul campo si sfidavano la troupe di Salò o le 120 giornate di Sodoma, diretto da Pasolini, e quella di Novecento con al timone Bernardo Bertolucci.

Nove di mattina, si diceva, davvero presto per due animali della notte com’erano Pasolini e Bertolucci. Il primo si aggirava per il campo con la faccia rigida per la concentrazione; il secondo era disteso, sembrava quasi non gli importasse molto. Anche perché era il giorno del suo trentaquattresimo compleanno. Quella partita rappresentava il regalo perfetto: l’occasione per riappacificarsi con il suo maestro, Pasolini. Perché quella del loro rapporto è una storia che merita di essere accennata prima del calcio d’inizio.

Bertolucci e Pasolini

Non era solo la stima reciproca a legare Pasolini e Bertolucci. No. La loro storia personale era profondamente intrecciata: Bertolucci era stato l’aiuto regista del poeta e scrittore bolognese sul set di Accattone e poi Pasolini gli aveva “regalato” soggetto e sceneggiatura del suo primo lungometraggio, La Commare Secca. Inoltre il padre di Bertolucci, Attilio, poeta parmigiano che viveva a Roma, era grande amico di Pier Paolo. Insomma, per tutta la vita si erano frequentati.

C’era stato però un allontanamento nel corso degli anni. Qualcuno diceva per i commenti poco lusinghieri di Pasolini sul film Ultimo tango a Parigi. Bertolucci aveva preso le critiche sul personale, e come poteva non farlo? Considerava Pasolini il suo maestro. Nelle interviste era solito dire: “Io l’università l’ho fatta chiacchierando con Pasolini”. Anche per questo motivo accettò la sfida sul campo di calcio quando gli fu proposta.

A fare il primo passo fu Laura Betti, storica collaboratrice di Pasolini, che in quel periodo era impegnata sul set di Novecento. Le due troupe, che condividevano la stessa produzione, lavoravano entrambe nei territori tra Parma, Bologna e Mantova. La Betti cercò di organizzare, in un clima festaiolo, un’occasione di riappacificamento tra i due registi. Inoltre la divertiva l’idea di una partita di calcio dove si sfidavano da una parte un film ricco e sontuoso, con attori internazionali come Robert De Niro e Burt Lancaster, e dall’altra una pellicola proletaria con gli attori, com’era vezzo di Pasolini, presi in gran parte dalla strada. Si stabilì immediatamente un clima divertito di sfottò. Le squadre furono rinominate “Nove-lento” e “Salò Breve”. Solo Pasolini la prese diversamente.

Pasolini e il culto del calcio

Bernardo Bertolucci non era un grande appassionato di calcio. Qualche lingua lunga diceva addirittura che non sapesse nemmeno se il pallone fosse tondo o quadrato. Dire invece che Pasolini fosse un amante del calcio è riduttivo. Tra una pausa e l’altra sul set non mancava mai l’occasione di organizzare una “partitella”, come le chiamava lui. Gli bastava rincorrere la palla per essere felice. Si ricordava di quand’era un ragazzino e i suoi amici lo chiamavano “Stukas”, come gli aerei tedeschi, perché era veloce e colpiva con precisione. Non sarebbe esagerato dire che per Pasolini il calcio era una vera e propria religione. Quando nelle interviste gli veniva chiesto chi fosse il miglior poeta dell’anno secondo lui, rispondeva sempre: il capocannoniere del campionato. Dopo aver saputo della sfida con la troupe di Novecento, passò le giornate a mettere su una squadra, pretendendo il massimo dell’impegno dai suoi giocatori. Lui, ovviamente, sarebbe stato il capitano.

Ala destra, gracile ma una vera farfalla. Vivace, dal dribbling eccezionale. Non riuscivi a fermarlo. Era soprattutto la forza di volontà a muoverlo e l’amore per la palla. Quando giocava, Pasolini tornava bambino. Nelle foto in cui gioca si può vedere il viso, solitamente dai tratti duri, sciogliersi in un sorriso. C’era poesia in questo amore: Pasolini, più che tifare, venerava il Bologna perché gli ricordava la sua infanzia, la città della sua formazione culturale, la sacra bolla del periodo migliore della sua vita. Il calcio era il modo in cui si ricongiungeva con la sua origine popolare. Perfino quando insegnava alla scuola media di Ciampino organizzava partite con i suoi alunni. Lo chiamavano “il professore” anche in campo.

Il trucco vincente di Bertolucci

Palla al centro: si giocava al campo della Cittadella di Parma. Il pubblico era composto da un piccolissimo gruppo di persone, essenzialmente pensionati o curiosi che a quell’ora portavano a spasso il cane. Nessuno aveva riconosciuto Pasolini o Bertolucci, mescolati com’erano alla ciurma delle loro squadre. Quella di Pasolini indossava l’impeccabile casacca del Bologna, a strisce blu e rosse; quelli di Novecento invece avevano una maglia viola con una scritta trasversale in un giallo acceso. Gliele aveva realizzate su misura la costumista. Bertolucci sosteneva che quel colore così inconsueto avrebbe confuso gli avversari. “Una bella trovata”, ironizzò Pasolini. Poi, con la fascia di capitano al braccio, si diresse verso il centro del campo. Bertolucci invece si accomodò in panchina, consapevole di avere un asso nella manica.

La sua squadra era, senza mezzi termini, un gruppo di sprovveduti. A un certo punto mandarono un emissario a spiare gli allenamenti del team Pasolini. Dopo qualche ora tornò dicendo: “Lasciate perdere, quelli in confronto a voi sono il Brasile”. In effetti Pasolini era così ispirato che sembrava Pelé e dopo qualche minuto segnò il gol del vantaggio. La squadra andò nuovamente in rete poche azioni più tardi, ma la partita stava per cambiare: un grosso elettricista della squadra di Bertolucci mise infatti fine alla grande prestazione di Pasolini con un intervento piuttosto duro che infortunò il regista. Scuro in volto, il poeta camminò zoppicando fino alla panchina e fu sostituito. Poi accadde qualcosa di incredibile: due rigori a favore della squadra di Novecento. Sembrava che, smarrito il loro leader, la squadra di Salò non sapesse, letteralmente, dove andare a parare.

Era l’inizio della rimonta, propiziata soprattutto da giovani calciatori del Parma che Bertolucci aveva fatto assumere come figuranti nel film solo per poterli utilizzare in campo. Uno dei prescelti era stato Carlo Ancelotti, allora uno sconosciuto quindicenne ma destinato in futuro a diventare un campione con le maglie di Parma, Roma, Milan. Proprio Carletto, oggi allenatore del Real Madrid, fu uno dei marcatori della sfida. Anche grazie a lui, un gol dopo l'altro, la squadra di Novecento si guadagnò la vittoria: la sfida terminò 5 a 2 per Bertolucci che, seduto in panchina, sghignazzava godendosi la vittoria.

Pasolini aveva perso la partita. Una bella coppa fu consegnata al vincitore, il festeggiato Bertolucci, che fu portato a spalla dalla troupe e la alzò al cielo. Poi le due squadre si ritrovarono intorno a un’enorme torta per celebrare il compleanno del regista. Pasolini si sciolse strappando a mani nude pezzi della torta e affondando i denti nel dolce. Alla fine si abbracciarono. Pier Paolo con un sorriso tirato, lo sguardo a terra. Bertolucci a testa alta, il bel sorriso sul volto e la coppa stretta in mano. L'allievo aveva battuto il maestro. Perlomeno in furbizia.

Credits

Cover: Bernardo Bertolucci, film director, Gotfryd Bernard. Royalty free photo distributed via Wikimedia; PierPaoloPasolini, autore sconosciuto.  Distributed under the Public Domain Mark 1.0 license via Wikimedia

Immagine interna 1: Pasolini 1960, autore sconosciuto.  Distributed under the Public Domain Mark 1.0 license via Wikimedia

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