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Economia
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La pratica non basta a renderci professionisti. Gli psicologi ci dicono perché e ci spiegano come eccellere.

01 settembre 2020
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"La pratica rende perfetti" è un concetto che, da sempre, viene inculcato nei giovani ambiziosi. Secondo questo mantra, per il quale l’esercizio costante è la via per raggiungere la vetta in qualsiasi disciplina, chiunque può diventare il prossimo LeBron James, Yo-Yo Ma o Celine Dion, purché dedichi abbastanza tempo ad affinare la tecnica. Ma, mentre sul fatto che con la pratica si migliori sono tutti d’accordo, non tutti gli esperti sostengono che questa sia sufficiente a garantire l’eccellenza. Zach Hambrick, psicologo della Michigan State University, ad esempio, ritiene che la formazione sia sì essenziale all’apprendimento, ma che trascorrere una parte della propria vita a cimentarsi continuamente in qualcosa non garantirà di diventare un professionista in materia.

L’idea che l’ostinazione e la costanza nell’esercitarsi in qualche arte o disciplina contino più della predisposizione innata, portando al successo, fu proposta dagli psicologi già negli anni Trenta, ma il dibattito nel mondo accademico si è (ri)aperto quando lo psicologo K. Anders Ericsson, insieme ai colleghi Ralph Krampe e Clemens Tesch-Römer, nel 1993 pubblicò uno studio basato su interviste e ricerche fatte su un gruppo di pianisti e violinisti; la ricerca sosteneva che, in media, chi dai 5 ai 20 anni di età aveva fatto un certo numero di ore di pratica, aveva raggiunto l’eccellenza e che, mentre dopo circa 5mila ore di esercizio, rimaneva difficile distinguere chi eccelleva e chi no, farlo diventava più semplice individuando chi aveva continuato a esercitarsi per molto più tempo, indicativamente 10mila ore. I ricercatori sostenevano, cioè, che, oltre al talento, è determinante la pratica e che, anche se c’è il talento, senza l’allenamento questo non viene a galla. La conclusione – un po’ affrettata – che fu tratta dal paper era che 10mila ore di pratica rendono un adolescente medio un virtuoso del violino. E quindi possono portare chiunque a eccellere in una disciplina.

Ma la teoria di Ericsson sarebbe passata relativamente inosservata se un libro nel 2008 non l’avesse resa pop, rilanciandola presso il grande pubblico e riaprendo il dibattito, col risultato di fissare quella cifra, 10mila ore, nell’immaginario di tanti aspiranti qualcuno. Nel libro, intitolato Fuoriclasse. Storia naturale del successo, l’autore, il sociologo e giornalista canadese Malcolm Gladwell, passava in rassegna alcuni esempi di eccellenza in diversi campi, dai Beatles al fisico statunitense Oppenheimer, sostenendo che raggiunsero quei livelli solo in parte grazie al loro talento, ma, soprattutto, perché avevano potuto e voluto allenarsi per almeno 10mila ore.

D’altronde, l’idea che la pratica renda perfetti, dando a chiunque la possibilità di assurgere ai massimi livelli di una disciplina o di un campo del sapere – dalla matematica alla musica, dall’arte allo sport – purché abbia il tempo, la pazienza e la disciplina da dedicarvi, è intrigante. Permette a chiunque, infatti, di immaginarsi mago degli scacchi, genio del pianoforte o campione di salto in lungo, presentando come concretamente raggiungibili – seppur con molto allenamento – dei livelli di abilità straordinari. Ma è fuorviante, secondo diversi esperti.

Ericsson stesso, infatti, ha criticato Gladwell, secondo il quale – pur ammettendo che da solo l’allenamento non è tutto e che serve anche altro – 10mila ore sono il “numero magico della grandezza”; l’autore avrebbe infatti semplificato, travisandola, la conclusione a cui era giunto il paper del 1993, che faceva chiaro riferimento a quella che in inglese è chiamata deliberate practice, ossia un allenamento fatto per scelta e non per costrizione e ben ponderato, ritenendo comunque che alla base di tutto ci sia il talento. Aspetti, questi, trascurati da Gladwell. Ma la teoria ha continuato a essere consolidata e diffusa da vari testi, tra cui La trappola del talento di Geoff Colvin e altri che hanno fatto propria la massima di Hemingway per cui il successo è 1% ispirazione e 99% sudore.

Zach Hambrick è critico: ritiene, infatti, che la pratica non permetta a tutti di raggiungere i massimi livelli in qualcosa. Eccellere non sarebbe un mero fatto di esercizio, sostiene l’esperto, ma dipenderebbe dalla persona stessa; passando in rassegna una quantità di studi sul ruolo della pratica nella musica, nello sport, nell’educazione e nel successo professionale, Hambrick ha scoperto che il tempo dedicato a prove ed esercizio conta solo per circa un quarto della differenza di livello raggiunto da due persone in una certa disciplina. Altri fattori, come l’età, l’intelligenza e la naturale predisposizione, giocano ruoli importanti, distinguendo chi semplicemente migliora da chi diventa il migliore.

Il DNA contribuisce non poco alle abilità fisiche e intellettuali: l’altezza stabilita dalla genetica, ad esempio, può essere decisiva nel rendere un giocatore di basket un campione, e non c’è esercizio costante che regga il confronto con il vantaggio dato dall’altezza in questo sport, così come passare ore e ore seduto al piano non farà crescere le dita in lunghezza, vantaggio considerevole dei migliori pianisti. Hambrick sottolinea che la pratica resta in ogni caso importante: anche gli atleti più dotati fisicamente o gli artisti più talentuosi devono fare ore e ore di esercizio e mantenersi il più possibile costanti in questa routine.

Una conclusione simile a quella di Hambrick è stata raggiunta nel 2014 da una ricerca intitolata Deliberate practice and performance in music, games, sports, education, and professions: a meta-analysis; gli autori passano in rassegna oltre ottanta studi sull’acquisizione di competenze in vari settori con 11mila partecipanti in totale, concludendo che la pratica “deliberata” conta poco e spiega in media poco più del 10% delle abilità e del successo acquisiti in qualche attività. Inoltre, c’è un’ampia variabilità: se nei giochi, come gli scacchi, la pratica conta fino al 26%, la percentuale nella musica si abbassa al 21 e nello sport a 18. A scuola l’esercizio varrebbe solo il 4%, e nel mondo del lavoro meno dell’1%. Come si può facilmente intuire, aver accumulato tanta pratica, sottolineano gli autori, conta di più nelle attività prevedibili, per esempio la corsa, e meno in quelle imprevedibili, come la gestione di un’emergenza alla guida di un aereo. I fattori che portano ad acquisire una competenza da fuoriclasse sono piuttosto l’intelligenza, l’abilità, le predisposizioni naturali e l’età a cui si comincia a dedicarsi a un’attività.

L’allenamento avrebbe, quindi, un’importanza limitata. Come sintetizza efficacemente Brooke MacNamara, ricercatrice a Princeton e coautrice della ricerca: “Quando si tratta di capacità umane, entra in gioco un complesso insieme di fattori ambientali e genetici che, messi insieme, spiegano la differenza di risultati anche a parità di pratica”. L’esercizio, cioè, ci fa migliorare, ma non necessariamente eccellere rispetto agli altri. “Potrebbe non renderti migliore del tuo vicino. O di quell’altro ragazzo che frequenta la tua stessa lezione di violino”, conclude la ricercatrice. Che, con i colleghi, nel 2019 ha pubblicato un altro studio – dal titolo The role of deliberate practising in expert performance: revising Ericsson, Krampe and Tesch-Römer – che confuta i risultati raggiunti da quello di Ericsson del ’93.

Per migliorare davvero, oltre a una buona dose di talento e di fortuna nell’incontrare le condizioni ambientali adatte – da una famiglia motivatrice a un ambiente scolastico stimolante – non basta fare pratica. Più che la quantità di tempo dedicato a un’attività, infatti, sembra contare la qualità: l’esercizio, cioè, deve essere esercizio intelligente. Il celebre autore di Intelligenza emotiva, lo psicologo e giornalista Daniel Goleman spiega cosa c’è di sbagliato nella “regola delle 10mila ore” con un semplice e illuminante esempio: “Se sei un imbranato a golf, poniamo, e fai sempre lo stesso errore ogni volta che tenti una mossa, ripetendo per 10mila ore di pratica quello stesso errore non migliorerai il tuo gioco. Resterai un imbranato, solo un po’ più vecchio”.

La chiave sta nel capire quali fattori possano migliorare la qualità dell’esercizio che dedichiamo a una certa attività. Innanzitutto, deve essere un esercizio ben ponderato e mirato, che è poi ciò che distingue un amatore da un professionista: mentre l’amatore si esercita al piano per passare il tempo, il professionista si impegna ad affrontare i propri errori per risolverli. Per questo è importante il feedback, e i danzatori si esercitano così allo specchio, mentre chi produce contenuti per il web si misura con i dati di visualizzazioni e interazioni online, e gli sportivi con il proprio allenatore e i risultati ottenuti in una competizione.

Non bisogna, poi, crogiolarsi nell’idea confortante di essere “bravi abbastanza”, misurandosi solo con esercizi alla propria portata: il segreto sta nel puntare sempre più in alto. Per mantenere la concentrazione, inoltre, bisogna concedersi delle pause, perché la stanchezza abbassa il livello della performance. Questo non vale solo per le attività sportive, ma anche per quelle mentali: senza pause – e senza l’attenzione che queste permettono di recuperare – 10mila ore di pratica varranno molto meno, risulteranno più faticose, e l’eccellenza resterà irraggiungibile.

Diventare i migliori nel proprio campo non è impossibile: bisogna solo conoscere il mondo giusto per arrivare al traguardo.

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