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Come il machine learning può sfruttare il metodo di apprendimento dei bambini

16 settembre 2020
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L’idea che le macchine “imparino” come gli esseri umani può sembrare inquietante – facendo apparire meno fantascientifici gli scenari distopici in cui l’uomo dipende dai computer – ma in realtà questa prospettiva è estremamente utile in moltissimi campi,  e porta immensi benefici alla ricerca scientifica e alla qualità della vita. A renderlo possibile è il machine learning (o apprendimento automatico), la branca dell’intelligenza artificiale che usa metodi statistici per migliorare le performance di un algoritmo nell’identificare pattern di dati. Gli algoritmi di machine learning, cioè, usano metodi matematico-computazionali per apprendere informazioni direttamente dai dati, senza seguire modelli matematici predefiniti: in questo modo migliorano le proprie prestazioni, assimilando informazioni dal più ampio numero possibile di esempi. Osservando l’apprendimento dei bambini, però, gli scienziati oggi hanno capito che a pesare è anche il modo in cui questi esempi vengono forniti alla macchina.

Da quando Alan Turing, negli anni Cinquanta, lanciò l’idea di una macchina in grado di imparare, le ricerche sono andate sempre più avanti, subendo un’accelerazione dagli anni Novanta in poi. Oggi l’intuizione che le macchine possano apprendere come i bambini può determinare in questo ambito di ricerca un’ulteriore accelerata. Di norma, infatti, per “insegnare” a un algoritmo di machine-learning gli si forniscono tutti i dati in una volta: se si sta creando un sistema di classificazione di immagini per il riconoscimento delle specie animali, ad esempio, si mostrano diverse specie, ciascuna etichettata con il proprio nome, come “pastore tedesco” o “barboncino” per cani diversi, “piccione”, “gallina” o “pappagallo” per gli uccelli.

Questo metodo, però, si è rivelato più dispendioso in termini di impegno, rispetto a quello normalmente usato da un genitore che insegna al proprio figlio. In questo caso, infatti, al bambino si insegna dapprima la parola cane, associata a un ampio insieme di razze diverse, e solo quando ha imparato a distinguere un cane si procede a insegnargli a riconoscere le singole razze. Si inizia, cioè, con etichette generiche (“cane”, “uccello”, eccetera), suddividendo poi ciascuna di esse in sottogruppi più specifici: questo tipo di approccio all’apprendimento è più efficiente e permette di raggiungere risultati migliori avendo a disposizione la stessa quantità di dati.

Ed è proprio traendo ispirazione da questo approccio che i ricercatori della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, in Pennsylvania, hanno sviluppato una nuova tecnica di machine learning che scompone compiti impegnativi in sequenze di obiettivi intermedi più facili: in ciascun passaggio i dati sono sempre gli stessi, ma le etichette sono inizialmente generiche, diventando poi di volta in volta più specifiche. Se un sistema di classificazione di immagini ha difficoltà a distinguere tra due oggetti, infatti, il problema non è necessariamente che non ha avuto a disposizione un sufficiente numero di esempi: potrebbe, invece, averli appresi in modo sbagliato, meno efficiente. Nei test portati avanti con diversi set di dati per la classificazione di immagini, infatti, gli esiti del machine learning basato su questo approccio “umano” hanno quasi sempre sbaragliato quelli del metodo convenzionale, risultando fino al 7% più accurati.

In fin dei conti le macchine sono da sempre ispirate all’uomo, tanto che anche per loro – proprio come per i collegamenti tra i neuroni nel nostro cervello – si parla di reti neurali, che nelle macchine sono le strutture non-lineari di dati statistici organizzate come strumenti di modellazione. La pratica di allenare una rete neurale attraverso passaggi di difficoltà crescente, in realtà, è già in uso fin dagli anni Novanta con il nome di curriculum learning, che però fino ad ora si focalizzava sul presentare alle reti neurali della macchina un diverso sottoinsieme di dati a ogni passaggio, anziché gli stessi dati con etichette diverse, via via più specifiche, metodo che lo studio dei ricercatori di Pittsburgh ha ora dimostrato più efficiente. Quest’ultimo approccio, presentato dalla coautrice dello studio, Otilia Stretcu, in occasione dell’International Conference of Learning Representations di fine aprile, ha preso quindi i bambini come modello.

Le possibilità offerte da questo nuovo approccio si esprimeranno nei diversi ambiti di applicazione del machine learning: dai filtri anti-spam delle email, alla ricerca in ambito medico, in cui l’intelligenza artificiale può aiutare a fare diagnosi tempestive di malattie rare; e ancora, Uber utilizza il machine learning per prevedere le abitudini di viaggio degli utenti dell’applicazione mobile, migliorare le mappe e creare algoritmi per i suoi veicoli a guida autonoma, e anche Expedia, il sito di ricerca e prenotazione voli e hotel, si basa sull’apprendimento automatico. Le possibilità di applicazione sono vastissime e sono migliorabili proprio grazie allo studio dell’apprendimento negli uomini che, fin dalla più tenera infanzia, imparano macro categorie di dati e pian piano vi individuano differenziazioni più specifiche. E forse dai bambini – il cui metodo di assimilare le informazioni è una preziosa fonte di ispirazione per la ricerca – non smetteremo mai di imparare.

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